Recensione The Constant Gardener (2005)

Meirelles sembra sentirsi con le spalle sufficientemente coperte da potersi concentare sullo stile visivo e sulla tecnica, non sembre rispettando le esigenze del copione.

Meirelles scivola nel banale

Tratto da un romanzo di John Le Carré, uno dei guru della letteratura di spionaggio contemporanea, The Constant Gardener è il film che segna l'uscita del carioca Fernando Meirelles dai confini patri e che lo porta a confrontarsi con una storia ed una situazione produttiva che di brasiliano ha ben poco.
In molti si chiedevano come il regista dell'osannato La città di Dio - City of God avrebbe adattato il suo stile ad un film ed una storia sulla carta tanto diversa da quella che l'aveva reso famoso. Il giardiniere tenace racconta infatti di un diplomatico inglese in Kenya che, indagando sui misteri che circondano la morte della giovane moglie - un'idealista ed attivista a difesa della popolazione locale - si trova invischiato in una complessa storia di corruzione e morte legata alle illecite sperimentazioni di un nuovo farmaco sugli ignari abitanti di un villaggio keniota.
Ebbene, il risultato di questo incrocio di stili e sensibilità non è stato forse dei più riusciti, pur rimanendo abbondantemente entro i limiti della decenza cinematografica.

Forte di un cast decisamente solido - con un Ralph Fiennes perfetto prototipo del tranquillo gentleman britannico, una Rachel Weisz affascinante ed efficace per quel poco di tempo che le è stato riservato dalla sceneggiatura ed un buon parterre di comprimari - e di una storia che fa leva sul sentimento etico e sull'impegno civile dello spettatore, Meirelles sembra sentirsi con le spalle sufficientemente coperte da potersi concentare sullo stile visivo e sulla tecnica, non sembre rispettando le esigenze del copione.
Come risultato, The Constant Gardener è un film che alterna registri piuttosto diversi, narrativamente ma soprattutto visivamente: oscilla tra momenti più riflessivi e romantici nelle parti dove viene raccontata con fotografia plumbea la storia d'amore (anche e soprattutto postuma) tra i due protagonisti ad altri dove i colori, i suoni ma soprattutto le miserie dell'Africa prendono il sopravvento. Se nella prima delle due tipologie il regista cerca di placare il suo iperattivismo di camera e montaggio, nella seconda esplode in un vortice di tagli, steady, camere a mano, fotografia ipersatura e via dicendo. Purtroppo però non sempre (o meglio raramente) questo ipercinetismo è funzionale alla storia che racconta e i temi che il film va a toccare, mentre nelle sezioni più riflessive del film Meirelles ha difficoltà a rifuggire dal patetismo e dall'oleografia, vanificando il buono della sceneggiatura.

Resta, apparentemente solida, la spina dorsale rappresentata da una storia che coraggiosamente vorrebbe denunciare quello che tutti noi dovremmo già sapere, ovvero che l'Africa è un continente che continua ad essere sfruttato dai cosiddetti paesi civilizzato come villaggio turistico nel migliore dei casi o come laboratorio per esperimenti scomodi nel peggiore e che le compagnie farmaceutiche spesso e volentieri antepongono le logiche del profitto a quelle etiche e di rispetto della vita umana, di tutte le vite umane.
È quindi un peccato che nel suo desiderio di far vorticare la macchina da presa, di stordire lo spettatore col la sua aggressività visiva Meirelles non sia riuscita a ricreare anche l'impatto emotivo della Città di Dio, banalizzando e rendendo vagamente retorici i temi centrali del film e rendendo inutilmente melò il sentimento d'amore e di giustizia che guida il suo protagonista.