Recensione The Master (2012)

P.T. Anderson torna al cinema dopo il capolavoro Il petroliere, e lo fa con una prova di enorme densità tematica e di grandissimo spessore tecnico, impreziosita dalle straordinarie interpretazioni di Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman.

Maestro d'ambiguità

Certamente il film più atteso della 69° Mostra del Cinema di Venezia e uno degli eventi della nuova stagione cinematografica, The Master di Paul Thomas Anderson non delude le (fin troppo) alte aspettative di critica e fan ma anzi si conferma come primo vero papabile Leone d'oro di quest'anno e futuro grande protagonista della notte degli Oscar 2013. Il regista di Magnolia ritorna dunque al cinema a cinque anni di distanza dal capolavoro Il petroliere e lo fa con la storia di Freddie Quell, veterano della seconda guerra mondiale traumatizzato ed ossessionato che vaga senza una meta precisa per l'America fino a quando non finisce per caso su una nave in rotta da San Francisco a New York. Lì incontra Lancaster Dodd, filosofo, scrittore e fisico ma soprattutto leader spirituale di una setta chiamata La Causa che professa la necessità di annullare il lato animalesco di ciascuno di noi e che crede fermamente nella possibilità di accedere ai ricordi dello spirito e delle precedenti esistenze nel corso dei millenni antecedenti. Per fare questo Freddie deve quindi abbandonare i propri vizi e le proprie necessità, abbandonare il suo desiderio di libertà e soprattutto lasciare indietro, una volta per tutte, i propri ricordi per essere così finalmente pronto a conoscere la vera natura del proprio spirito.


Contrariamente a quello che potrebbero far pensare il titolo del film o le voci che lo volevano come un ritratto non autorizzato di L. Ron Hubbard e il suo Scientology, il rapporto tra i due uomini non è semplicemente quello di maestro/allievo o padrone/schiavo o anche padre/figlio, il loro incontro si evolve in qualcosa di ben più morboso, quasi una (platonica) storia d'amore in cui entrambi si dimostrano bisognosi, gelosi e protettivi l'uno dell'altro. A spostare gli equilibri di questo torbido rapporto interviene la famiglia (tradizionale ed allargata) ed in particolare un terzo personaggio, solo apparentemente secondario, quale è la moglie del Maestro Peggy, figura quasi ladymacbethiana che nell'ombra controlla La Causa e fa in modo che prosegua per la retta via. La struttura narrativa circolare del film non vuole offrire alcuna conclusione o senso di compiutezza per nessuno dei protagonisti, anzi il finale volutamente ambiguo lascia aperta la porta a più interpretazioni, possibilità e sviluppi.

In un film che è quasi un'analisi psicanalitica dei suoi protagonisti e dei rapporti che tra essi intercorrono, a fare la parte del leone non possono che essere le interpretazioni di uno straordinario gruppo di attori: se Amy Adams è perfetta nello sfruttare il breve, ma significativo, spazio a sua disposizione, sono i due protagonisti, ed in particolare i loro potenti ed impressionanti duetti, il cuore dell'intera pellicola. Philip Seymour Hoffman è qui ad una delle migliori interpretazioni della sua carriera: il suo Lancaster Dodd è un personaggio complesso che sa avvicinare lo spettatore con il suo carisma ma al tempo stesso lo allontana con scatti di rabbia improvvisi ed un senso di strisciante inquietudine; Joaquin Phoenix è semplicemente superlativo nell'offrire un'interpretazione profondamente fisica ed animalesca, che giunge a ricordarci addirittura il miglior De Niro, e neppure difetta di nuance e mistero.
Non si offenda però Phoenix se il nostro personale titolo di Maestro va ancora a questo giovane (ma si potrà ancora definirlo così?) cineasta che confeziona un film con immagini di rara bellezza e potenza e che, anche grazie al grande lavoro di tutto il reparto tecnico, - soprattutto la fotografia, ancor di più nell'impressionante versione in 70mm, di Mihai Malaimare Jr. è splendida e contribuisce, insieme all'ottima scenografia, a rendere più vivi che mai gli anni '50 americani - rappresenta di fatto il cinema statunitense al suo meglio e conferma così il suo autore tra i massimi esponenti viventi.
Il genio di Anderson non è solo nella sua abilità dietro la macchina da presa o in fase di scrittura, ma anche nelle piccole grandi intuzioni che fanno un film: vincente era stata quella di scegliere il chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood per la colonna sonora de Il petroliere, ed è una scelta che qui viene confermata e ancora una volta ripagata con una soundtrack preziosa in cui serpeggiano due elementi fondamentali del film, sensualità e claustrofobia.

Movieplayer.it

4.0/5