Mad Men, stagione 6: Uomini senza un piano

Fantasmi del passato che si riaffacciano alla memoria di Don Draper e nuovi ambigui personaggi, tutti oppressi da un'atmosfera a metà tra il glamour della fine degli anni 60 e un'asfissiante, paranoica sensazione di fine imminente. Ecco una panoramica della sesta stagione di Mad Men, conclusasi da pochi giorni negli Stati Uniti.

Da pochi giorni si è conclusa negli Stati Uniti la trasmissione della sesta stagione di Mad Men, che equivale al capitolo prima dell'epilogo, poiché, secondo quanto dichiarato dal creatore Matthew Weiner, la settima sarà l'ultima. Dopo un crescendo di livello imponente iniziato già alla seconda stagione, con questa sesta gli autori dello show potevano tirare i remi in barca e, invece, hanno preferito continuare nella descrizione della caduta senza fine del mad man Don Draper (l'ormai iconico Jon Hamm). Impossibile non notare un certo rallentamento delle situazioni, soprattutto durante i primi quattro o cinque episodi, ma in realtà esso è solo apparente, elemento costitutivo per l'inattesa svolta successiva (fondamentali, in tal senso, le puntate di metà stagione). Bisogna inoltre considerare il rischio di depauperamento di uno show che ha già molti anni sulle spalle e nella cui scrittura gli autori devono essere abili per evitare un prosciugamento delle tematiche, che ne sterilizzerebbero il proseguimento.

Rispetto alla stagione precedente, che dirigeva le trame in maniera corale con delle perfette simmetrie narrative, Mad Men torna ora a ruotare soprattutto intorno a Don, alle sue nevrosi e alle sue debolezze, scavando ancora un po' sui nodi irrisolti della sua personalità che lo costringono a comportarsi in una data maniera, a compiere determinate scelte. Uno dei leitmotiv della quinta stagione era stato il parallelismo evolutivo/involutivo tra la rampante Peggy Olson (Elisabeth Moss) e un ormai soddisfatto (e accasato) Don Draper. Alla fine Peggy decide di uscire dall'ombra del suo mentore per poter avviare una carriera indipendente nell'agenzia avversaria capitanata da Ted Chaough (Kevin Rahm), mentre Don si ritrova per l'ennesima volta da solo, a bere in un bar e, abbordato da una donna, risponde con quell'espressione allusiva e magnetica che abbiamo imparato a conoscere.
Infatti, in The Doorway (6x01) scopriamo che Don ha iniziato una relazione con una vicina di casa (Linda Cardellini, vecchia conoscenza della tv dai tempi di E.R. - Medici in prima linea), moglie del dottor Rosen. Ma non è l'infedeltà di Don a essere il filo conduttore di questa stagione, questione già ampiamente sviscerata ai tempi del matrimonio con Betty, bensì, come annunciato, l'inarrestabile declino del nostro protagonista. Se può apparire un po' didascalica la lettura della celebre prima terzina dell'Inferno di Dante nell'incipit dell'episodio, è inevitabile notare come questa stagione sia la più cupa e demoralizzante: non c'è niente che vada bene, a ogni svolta narrativa ogni personaggio si trova di fronte un'impasse, a una sconfitta personale, piccola o grande che sia. L'esempio più eclatante è offerto dal solito Pete Campbell: ambizioso fino all'inverosimile e contemporaneamente insoddisfatto, solo e perennemente triste. Durante queste 13 puntate Pete manda in frantumi il suo rapporto con Trudy, perde vari clienti e colleziona figure imbarazzanti (già cult il suo scivolone per le scale in For Immediate Release - 6x06), eppure anche grazie all'interpretazione di Vincent Kartheiser un personaggio sempre più antipatico, finisce per produrre compassione nello spettatore, per il suo patetico tentativo di essere il "cocco" dei più grandi.
Il confronto generazionale è, d'altra parte, il tema che più di ogni altro si insinua con intelligenza durante questa stagione: sin dalla già citata season premiere, si comincia a respirare un poco accomodante senso di fine, di morte imminente, senza alcun dubbio questa è la stagione con più decessi (per non parlare agli incidenti che capitano al povero Ken Cosgrove). Siamo nel 1968 e sono passati praticamente dieci anni da quando abbiamo conosciuto i personaggi, e Weiner , insieme ai suoi co-sceneggiatori, mostra come essi si ritrovino di fronte un passaggio generazionale epocale. Senza dover necessariamente addentrarci nei dettagli della trama, ci basti sottolineare i passaggi nei quali la Storia irrompe nelle biografie dei vari personaggi: si vive il trauma dell'uccisione di Martin Luther King, con conseguenti manifestazioni dei più facinorosi e rappresaglie della polizia, l'attentato a Bobby Kennedy è un altro momento altamente drammatico e su tutta la stagione pesa l'ombra della guerra del Vietnam che in quegli stava diventando per gli americani un vero e proprio incubo.
Peggy, ritornata professionalmente nell'orbita di Don, si trova a essere l'ago della bilancia nel continuo testa a testa tra Chaough e Draper: anche lei abbastanza insoddisfatta, rivela a Ted la sua ambizione, quella di poter decidere cosa fare (proprio come un uomo). Per lei la lotta tra i sessi non è ancora finita, così com'è portata avanti silenziosamente da Betty Francis (January Jones), la quale, una volta saputo che il marito concorrerà per diventare senatore, ha subito riacquistato il peso forma e un'invidiabile linea, ben osservata in una scena di The Better Half (6x09).
Mentre gli autori inseriscono un nuovo personaggio che rivelerà avere notevoli e inaspettate affinità con Don Draper (ma ci torneremo dopo), il nostro direttore creativo dovrà confrontarsi per l'ennesima volta con i fantasmi del suo passato. Da una parte, un rapporto con le donne e col sesso mai riconciliato che - scopriremo - affonda prepotentemente nella sua adolescenza, nel suo essere cresciuto senza genitori in un bordello, dove l'unica cosa che poteva fare spesso e gratis, era stare a guardare gli altri; dall'altra la propria paternità, vissuta tra enormi deficit affettivi e la cappa del senso di colpa di non essere ciò che appare, questione che esplode letteralmente nell'episodio in cui Sally scopre casualmente uno dei tanti "vizi" del padre.
Miglior new entry stagionale è Bob Benson (James Wolk), un account che con la sua storyline ha sostituito Ginsberg (Ben Feldman), venuto meno, dopo qualche episodio, al suo ruolo di giovane e nevrotico contraltare di Don Draper. Benson, sin dalle prime apparizioni, è un personaggio pieno di annotazioni ambigue: è Man with a Plan, titolo-calembour del settimo episodio che lo vede prodigarsi per una Joan con improvvisi problemi di salute, ma è anche un uomo che sa evidentemente cosa fare e quali leve muovere per arrivare dove vuole e la sua rapida carriera ce lo dimostra. Non di meno, il giovane Benson nasconde un segreto identitario (non completamente sciolto) simile a quello di Don/Dick Whitman e di cui, anche in quest'occasione, Campbell è lo scopritore.
Durante la stagione sono fiorite diverse teorie, come mai era capitato in Mad Men (mentre come qualcuno ricorderà era la norma per Lost) e, sebbene siano state per lo più smentite da Weiner, vogliamo elencare i due filoni principali. Le prime sono ovviamente a carattere cospirativo e riguardano Bob Benson, la cui identità è avvolta nel mistero. Altre ruotano, invece, intorno al personaggio di Megan (Jessica Paré): secondo queste ultime, sarebbe già morta e rimasta come mera proiezione fantasmatica di Don (la sequenza onirica di A Tale of Two Cities deve aver incantato molti) oppure in procinto di essere uccisa, visto che il suo look ricorda quello di Sharon Tate, sfortunata moglie di Roman Polanski uccisa dalla "famiglia" di Charles Manson. La somiglianza è balzata agli occhi nella sopracitata 6x10, quando Megan indossa in balcone una t-shirt con una stella rossa, ma le citazione polanskiane sono ricorrenti, sia per infondere un'idea di oppressione paranoica che per l'uscita nelle sale di Rosemary's baby - Nastro rosso a New York - non crediamo sia un caso che l'altra pellicola che Don vada a vedere sia Il pianeta delle scimmie, col suo desolante finale apocalittico.
Prima di concludere, ci ritagliamo uno spazio per lodare uno degli episodi migliori dell'intera stagione televisiva: The Crash (6x08), scritto da Jason Grote e Matthew Weiner e diretto da Michael Uppendahl, è un eccitante gioco virtuosistico di scrittura e messa in scena. Se si eccettua la somiglianza strutturale con quella della passata stagione in cui Roger assumeva l'LSD, la puntata sfodera una scrittura allucinata e liberissima che fa un perfetto e geniale uso del tempo interno/tempo esterno per rispecchiare la psiche ormai franta di Don.
Finale incerto che rimescola le carte, senza fornire risposte concrete. Draper concede una nuovo inizio a Chaough e si apre quasi alla speranza di una risanamento interiore, mostrando finalmente ai suoi figli il suo vero io, attraverso la casa, ormai diroccata, dov'è cresciuto insieme alle donne di malaffare. Riguardo a futuri sviluppi, Weiner ha affermato di avere idea del finale, sebbene non abbia ancora scritto un episodio e, realizzando questa stagione, non ha pensato a conservare qualcosa: in sostanza ha confessato di non aver fatto la formica bensì la cicala. Captatio benevolentiae nei confronti degli spettatori del prossimo futuro? O la sotterranea certezza di continuare a scrivere indimenticabili pagine di storia della serialità televisiva? Perché, sebbene certi passaggi di quest'annata di Mad Men ci siano sembrati flirtare con gusto con le soap recitate da Megan, noi madmaniaci asseriamo che siamo a quel punto di assuefazione dove ogni cosa che questi uomini facciano, bevano, fumino o dicano, ci va bene. L'importante è che continuino a farlo con questo impareggiabile stile.