Recensione Schattenwelt (2008)

'Abbiamo stabilito una linea netta tra noi e il nostro nemico, è questa la nostra prima vittoria', diceva Mao Tse-tung in uno dei motti che furono fonte principale di ispirazione del movimento tedesco della RAF. A distanza di quasi trent'anni è proprio il vacillare di quella linea a generare i nodi irrisolti, le pieghe oscure nel presente, delle quali ci parla il film di Connie Walter

Lunghe ombre dal passato

Le lunghe ombre delle quali parla Connie Walter, - questa la traduzione più o meno letterale di Schattenwelt, film tedesco presentato in concorso al Festival del cinema di Roma - si stagliano sul grande schermo fin dal titolo. Una traduzione che rispecchia il tema trattato dal film, in sospeso tra un presente difficile da accettare ed un passato che non si è mai riusciti a metabolizzare.
La sceneggiatura parla della RAF (Rote Armee Fraktion), l'organizzazione criminale e terrorista fondata dall'attivista extraparlamentare Andreas Baader, e dalla giornalista di estrema sinistra Ulrike Meinhof, all'inizio degli anni '70, ma con lo sguardo rivolto alla complessità del presente, più che sul racconto di un'epoca passata come per esempio fa La banda Baader Meinhof, curiosamente presentato come anteprima all'interno dello stesso Festival.

Widmer è uno dei membri del commando che assaltò la villa di uno dei banchieri più influenti della Germania del tempo, von Seichfeld, crivellandolo di colpi. Valerie è la figlia del giardiniere di von Seichfeld, trovatosi sul posto sbagliato nel momento sbagliato, finendo anche lui per essere trucidato dalla furia ideologica di Widmer e compagni.
Qui si conclude un prologo che emerge a poco a poco, durante lo svolgersi della pellicola. Lo sguardo della Walter è infatti totalmente concentrato sull'oggi. Ci sono possibilità di redenzione per chi ha lasciato dietro di sè tanto dolore e tanta disperazione? Come si può tornare a vivere una normale quotidianità dopo aver trascorso giorni di clandestinità e tensione continua e successivamente, ventidue anni in carcere?
Ma Schattenwelt non si risolve, come potrebbe apparire fermandosi solo a questo, in un'operazione un pò furbetta e tendenziosa di riabilitazione dei colpevoli, di legittimazione di un'istanza politica che, non allora nè tanto meno oggi, aveva ragion d'essere. Lo sguardo si sposta in continuazione sulla vittima, evidenziandone le stesse problematiche ad affrontare senza struggersi una vita ormai segnata.

"Abbiamo stabilito una linea netta tra noi e il nostro nemico, è questa la nostra prima vittoria", citiamo a memoria una delle frasi di Mao Tse-tung che furono fonte principale di ispirazione del movimento tedesco. A distanza di quasi trent'anni è proprio il vacillare di quella linea a generare nodi irrisolti, pieghe oscure nel presente. La Walter ci corre sopra, la sfiora, la attraversa per poi ritornare indietro, dando vita a certezze che ben presto vacillano.
La scelta visiva richiama molto i colori algidi, nordici, di parte del cinema europeo degli anni '70, ed è funzionale a far sentire, fin dentro lo scorrere delle immagini, quest'incombenza del passato sulle vite dei protagonisti.
Entrambi vivono momenti di estrema umanità, di estrema libertà, ma anche istanti di annebbiamento, in cui il rancore e la delusione accumulata vincono su tutto, avvolti fin nel midollo da una costruzione delle immagini che, discretamente ma ossessivamente, non permette di operare una censura con quel che è stato.

Intelligente anche la scelta di lavorare per ellissi, di non spiegare tutto, e lasciando anche allo spettatore la possibilità di confrontarsi con quella linea d'ombra, con quelle sfaccettature irrisolte, che segnano la vita di chi visse in prima persona quegli anni. Ad un certo punto, tutto il livore, tutto il senso (pur minimo) che aveva quella forma di lotta in quegli anni, sono finiti. Improvvisamente.
Il passato, al contrario, continua ad incombere.