Luchetti verso Cannes con La nostra vita

Presentato a Roma il nuovo attesissimo film di Daniele Luchetti che tra qualche giorno sbarcherà sulla Croisette e cercherà di portarsi a casa la Palma d'Oro in palio nella 63ª edizione del Festival di Cannes.

Parte da Roma e arriva direttamente a Cannes l'unico film che rappresenterà l'Italia nel concorso dell'imminente kermesse internazionale che aprirà i battenti il 12 maggio prossimo. Si tratta de La nostra vita di Daniele Luchetti, cineasta romantico, realista e dotato di una struggente sensibilità che dopo il successo di Mio fratello è figlio unico torna a parlare dell'Italia dei nostro scontento, di famiglia, di amore e di vita, esortando a vivere entrambi con il cuore e con naturalezza, fino in fondo. Quella raccontata da Luchetti è l'Italia di oggi, nuda e cruda, senza mezzi termini, l'Italia della crisi e dell'immigrazione, l'Italia del soldo e del precariato, la realtà dell'Italia proletaria che oggi più di ieri è abbattuta, spietata, senza scrupoli, consumata dalla sua stessa impotenza di fronte ad una società che inghiotte tutto e tutti e che ha scatenato un progressivo inaridimento dei sentimenti e dei valori su cui una volta, tanto tempo fa, il Bel Paese si fondava.
Per il cinquantenne regista romano è la quarta partecipazione al festival di Cannes e la seconda in concorso dopo l'esperienza del 1991 con Il portaborse e le due presenze nella sezione Un Certain Regard, nel 1988 con il film d'esordio Domani accadrà prodotto dalla Sacher dell'amico Nanni Moretti, che gli valse la menzione Camera d'Or, e nel 2007 con l'acclamato Mio fratello è figlio unico.
Prodotto da Cattleya in collaborazione con Rai Cinema e con la francese Babe Films, La nostra vita narra la storia di Claudio, trentenne romano che mantiene la moglie Elena, incinta del loro terzo bambino, e i due figlioletti lavorando come operaio edile in uno dei tanti cantieri della città. Il loro è un grande amore e quella che hanno costruito insieme con tanta fatica è una famiglia felice in tutti i sensi la cui serenità viene annientata dalla morte di Elena, una moglie e una mamma dolce e complice, fulcro d'amore, di principi morali e di dialogo all'interno della casa, una guida senza la quale Claudio ora si sente perso. Per il giovane papà dei tre maschietti è l'inizio di un incubo. Della sua vita e di se stesso ormai non gli importa più nulla, vuole solo dimostrare di essere in grado di provvedere al benessere dei suoi figli, un benessere materiale prima che affettivo. La voglia di 'risarcire' i suoi bambini lo spingerà a cacciarsi in un'impresa ardua, troppo più grande di lui, da cui sarà difficile uscir fuori senza colpo ferire. Si ritroverà così costretto a chiedere aiuto alla sorella Loredana, al fratello Piero e al vicino di casa Ari, un tipo non proprio dei più raccomandabili, ma sempre pronto ad offrire aiuto all'amico in difficoltà.
Il grandioso cast, capitanato dal protagonista Elio Germano che torna a lavorare con Luchetti dopo l'esperienza di Mio fratello è figlio unico e che mette una seria ipoteca sulla Palma d'Oro, è composto dalla bella, brava e gettonatissima Isabella Ragonese e da tre 'pezzi grossi' come Giorgio Colangeli, Raoul Bova e Luca Zingaretti, quesi ultimi due in ruoli a dir poco inediti in cui non ci saremmo mai immaginati di vederli.
Unico presente alla conferenza stampa di presentazione del film presso il Cinema Quattro Fontane di Roma il regista Daniele Luchetti che con il suo solito garbo ma senza peli sulla lingua ha risposto come un fiume in piena alle domande dei giornalisti alla vigilia della partenza per il festival che si terrà in uno dei posti più belli del mondo, un luogo che lui stesso ha definito l'ombelico della terra del cinema per eccellenza. La nostra vita sarà presentato a Cannes il 20 maggio e arriverà nelle nostre sale il giorno successivo distribuito da 01Distribution.

Signor Luchetti, il tema dell'integrazione nell'ultimo anno è stato forse quello più toccato dal cinema italiano e anche nel suo film è uno degli aspetti più interessanti, sia per il realismo usato nel raccontarlo che per l'interessante chiave sentimentale e non moralistico-politicante...

Daniele Luchetti: Spesso il proletariato è stato raccontato dal nostro cinema in modo quasi sprezzante, sempre guardato dall'alto in basso per prenderne le distanze o caricaturale per sottolinearne le situazioni più buffe, anche negli anni '60 i proletari erano gli ignoranti che si arrabattavano, le persone di cattivo gusto. In alternativa si è spesso strumentalizzato come dimostrazione politica di un qualcosa, i proletari sono stati spesso quelli che se avessero studiato di più sarebbero diventati qualcuno, usati a mo' di lamentela e commiserazione. Io ho cercato di trattare tutti allo stesso modo, sia i personaggi italiani che stranieri, spesso mi sono immedesimato in uno di loro per costruire al meglio la sceneggiatura.

Quindi la realtà è stato il suo asso nella manica?
Daniele Luchetti: Credo che lo sguardo originale del film stia proprio in questo, nel raccontarli al loro livello, senza sconti nè celebrazioni e soprattutto senza dover per forza dimostrare che la realtà è molto diversa dai fatti di cronaca che riportano i giornali. Tutto quello che vedete nel film è tratto dalla realtà che ho visto e sentito con i miei occhi, tutti sono ispirati a persone vere che ho conosciuto.

In questo contesto torna però anche il tema della paternità, molte volte apparso nei suoi film e nel cinema nostrano, un argomento che ne La nostra vita trova la sua massima celebrazione...
Daniele Luchetti: E' un tema fondamentale, il protagonista ha trent'anni, è già padre di tre figli maschi e il film è tutto incentrato sulla mancanza della figura femminile, figura di raccordo tra padre e figli, mediatrice e donatrice di sentimenti. Quando viene a mancare lei il papà sembra non sapere più cosa fare, i bambini diventano per lui come pacchi postali, non c'è più dialogo. Il pregio di questa storia è quello di evitare ogni clichè, non vedete mai i bambini fare gli adulti al contrario di quel che spesso accade.

L'essere padre l'ha ispirata nel modo di raccontare questo legame?
Daniele Luchetti: L'essere padre mi ha aiutato ad analizzare meglio il modo in cui trattiamo i nostri figli, spesso li facciamo sentire di peso e non ci accorgiamo neanche minimamente di quello che provano. Essere padre mi ha aiutato molto anche a capire come girare certe scene con dolore e maggior pudore come quella del funerale, in quella sequenza ho cercato di immaginare la disperazione su di me e ho deciso di non mostrare i volti dei bambini che hanno perso la loro mamma, volevo usare più delicatezza possibile. Inutile nascondersi, quella in cui mi sono cacciato è una materia che è facile banalizzare, basta un niente.

Cosa ci dice di questa nuova esperienza al fianco di Elio Germano, come lo ha scelto per il ruolo di protagonista?

Daniele Luchetti: E' stata una scelta nata praticamente insieme al copione, ho pensato subito che potesse spingere ancora di più dal punto di vista emotivo rispetto a Mio fratello è figlio unico. Sapevo che con lui mi potevo avventurare in soluzioni dolorose senza cadere nel ricattatorio, avevo bisogno che tutto fosse autentico e quando lui soffre sembra che soffra veramente. E poi ha una ferocia comica unica, lavoriamo bene insieme e quando entra in un personaggio lo fa suo improvvisando in continuazione senza mai sbagliare di una virgola, può cambiare interamente una battuta rispetto al copione senza che il senso cambi di un millimetro.

Quanti ciak sono stati fatti sulla scena del funerale in cui nel mezzo della cerimonia funebre grida al mondo la sua disperazione cantando alla moglie Anima fragile di Vasco Rossi?
Daniele Luchetti: Sono stati fatti non più di due o tre ciak su di lui e quella che vedete nel film è frutto del secondo. Per quella scena si è preparato a lungo, si è autosuggestionato a lungo, nel copione non l'avevo prevista così forte, ricordo di avergli detto "vai, e spingi più che puoi". Gli è venuta così e ho scelto di non staccargli la macchina di dosso e di indugiare l'inquadratura su di lui senza spaziare intorno andando sulla gente. D'altronde è la scena più forte del film, la spinta emotiva che ti dà te la porti fino alla fine.

La canzone di Vasco Rossi che Claudio canta insieme alla moglie all'inizio del film e poi in chiesa al funerale è stata scelta subito oppure è stata frutto di una selezione? Come le è venuta l'idea di un funerale cantato?
Daniele Luchetti: Una volta ho assistito al funerale struggente di una ragazza tossicodipendente ad Ostia, il cui desiderio era quello di far risuonare in chiesa le note di Like a Virgin di Madonna. Fu una scena straziante che mai dimenticherò. Avevamo selezionato molti titoli di canzoni popolari e di forte impatto emotivo, ma Anima Fragile ha vinto perchè è delicata ed era quella che stava meglio sulle immagini. L'ho scelta due settimane prima della fine delle riprese.

Come le è venuto in mente di scegliere Zingaretti e Bova per due ruoli per loro così insoliti?
Daniele Luchetti: Nel film sono l'opposto di quello che sono normalmente, in una storia in cui il protagonista funziona il contorno può anche insolito. Volevo metterli alla prova con due personaggi nuovi, che potessero tirar loro fuori qualcosa che appartiene loro ma che di solito non viene in superficie. Sono tutti attori a cui voglio molto bene, la Montorsi è la mia ex-moglie, c'è mio figlio in un piccolo ruolo e poi il ragazzo rumeno che non è un attore ma l'ho preso dalla strada. Sul copione il suo personaggio era completamente diverso ma alla fine si è trasformato un po' nell'analista personale del protagonista, teoricamente avrebbe dovuto essere il più sprovveduto ma alla fine è l'unico che dice la verità e che mette tutti di fronte all'ineluttabilità delle cose.

Il suo è un film che colpisce dritto allo stomaco, che scatena rabbia ed emozioni forti, impossibile per lo spettatore non riconoscersi e non identificarsi nel protagonista ma ad un certo punto è il ragazzo rumeno che fa la riflessione più graffiante di tutto il film dicendo "se io capissi cosa ho da dirti non troverei le parole e se le trovassi tu comunque non mi capiresti". Si sente di condividere l'idea che il suo è soprattutto un film sull'incomunicabilità e sull'impoverimento linguistico, culturale e sentimentale del nostro Paese?

Daniele Luchetti: Il flusso nascosto di questo film è proprio questo: questa storia è popolata di persone che non parlano mai di niente. Alla domanda "come stai?" nessuno sa come rispondere, tutti sono intrappolati nell'avere e pensano a cosa si può comprare. Può sembrare banale parlare in termini di 'società di oggi' ma lo devo fare, avevo 33 anni quando persi mio padre e mi resi conto di essere del tutto impreparato a quell'evento. Nessuno oggi ci fa più i conti con la morte, ma neanche con le separazioni, con le nascite, con i traslochi, con i cambiamenti. Di fronte anche al più banale degli imprevisti spesso ci troviamo inermi, quello che ci interessa è vivere bene finchè dura senza pensare che all'improvviso qualcosa può turbare il nostro equilibrio temporaneo. La verità è che non sappiamo neanche più raccontare le nostre mozioni nè a vivere appieno la nostra vita.

Quello che lei dice è lampante nel momento in cui il protagonista trovandosi in difficoltà chiede i soldi per portare a termine il suo progetto all'unica persona cui non li dovrebbe chiedere, ad uno che gioca scorretto perchè forse dentro di sè sa già che si comporterà anche lui in modo scorretto per arrivare al suo scopo...
Daniele Luchetti: Come dicevo prima anche il proletariato è cambiato negli anni, Claudio non chiede aiuto alla sua famiglia in prima battuta ma usa la famosa scorciatoia, quella che anche tutti noi almeno una volta abbiamo battuto, in Italia è la prassi. Chi di noi non ha mai pagato in nero operai per riverniciare la casa pur di risparmiare qualcosa? Non mi interessava sottolineare le piccole grandi 'scorciatoie' ma la naturalezza con cui il nostro paese fa queste scelte senza battere ciglio.

Il suo film è girato nelle periferie di Roma, ci racconta cos'ha visto girando in questi quartieri e perchè la scelta di girare sempre di giorno?
Daniele Luchetti: Quando decisi di girare questo film andai a vedere di persona dove finisce la città e sono finito in quei quartieri che sembrano tutti uguali, che hanno quella strana luce e quella strana realtà, sono dei non-luoghi completamente avulsi dalla metropoli. Ho semplicemente guardato, sentito e preso quel che il sole ci regalava. Claudio Collepiccolo, il direttore della fotografia, ha cercato di cambiare il meno possibile la luce naturale che avevamo catturato, volevamo evitare qualsiasi tipo di forzatura. Lo vedo come un film solare nonostante il lutto di solito ce lo si immagina cupo, spento, buio. C'è vita in questa storia, c'è luce, è stata una scelta istintiva quella di girare sempre di giorno, non calcolata.

La paternità, la famiglia, il lutto ma anche il lavoro nero e il precariato. Come ha unito tutti questi temi per arrivare a questa analisi sociologica così amara?
Daniele Luchetti: Tutte queste cose hanno sempre viaggiato di pari passo, il meccanismo lavorativo in cui si infila il protagonista è stata una delle scelta primarie che ho fatto all'inizio. Ho molti amici che lavorano nei cantieri edili, sia tra i responsabili che tra i manovali, mi sono procurato informazioni di prima mano, ho raccolto appunti sul campo, un'operazione interessante e divertente durante la quale ho imparato molte cose che non sapevo come l'esistenza di squadre di emergenza che intervengono ad un certo punto, quando si è troppo in ritardo con i tempi. Sono composte da italiani che si mantengono con un altro lavoro e che non hanno bisogno di pagamenti immediati, al contrario degli extracomunitari che ci devono mangiare con quei soldi. Una manodopera che accetta di essere pagata dopo e che sfrutta lo sfruttabile rigorosamente in nero. Hanno tempo ma costano il triplo.

Il personaggio di Elio Germano ad un certo punto dice "ma tu guarda questi stranieri, noi andiamo all'estero per fare soldi e loro vengono qui", è forse questo il suo modo di giustificare le sue scelte discutibili?
Daniele Luchetti: Dice anche "sto a diventà io lo straniero vostro", come se per lui straniero fosse sinonimo di schiavo. Trovo brillantissima questa sua battuta, ricca di significato, in questi dialoghi traspare un razzismo che definirei 'di convenienza', come quello che il protagonista prova nei confronti delle donne, la sua dopo tutto è una famiglia in cui le donne cucinano e fanno figli.

Lei racconta un pezzo di vita di queste persone, come ha lavorato in fase di montaggio per restituire allo spettatore il ritmo naturale della vita dei protagonisti?

Daniele Luchetti: Mi sono affidato a Mirko Garrone, posso girare in questo modo solo perchè so che poi sarà lui a montare. Tiro sempre fuori un materiale disordinato e incasinato ma so che il suo occhio aggiusterà tutto come si deve, il talento di un regista si riconosce anche dalla capacità di circondarsi dei talenti giusti. Il girato somigliava a un documentario pur non essendo un documentario, è grazie al suo intuito che siamo riusciti a fare questo film che lui stesso ha definito "un film che non ammette tradimenti nei confronti dello spettatore". Con la comicità non puoi in alcun modo alleggerirlo un film del genere, c'erano molte più situazioni divertenti ma abbiamo scelto di lasciare solo le battute che sgorgavano dai personaggi. Tutto doveva sembrare vita, sempre. Per fare questo avevo bisogno di un occhio esterno, del distacco del montatore, uno che non sta sul set e che è sempre pronto a sorprendersi. Posso dire che alla fine il film somiglia abbastanza al copione che avevo scritto, lui è il primo spettatore del film e quando mi dice "qui togliamo!" io cerco di stringere i denti e di fidarmi di lui.

Nel film più volte gli italiani sono accusati di pensare solo ai soldi e al mostrarsi, una verità dura ma importante con cui tutti dobbiamo fare in conti, un qualcosa che trascende il proletariato...
Daniele Luchetti: Non è un caso che siano gli stranieri a mettere in risalto questa cosa, la caduta del muro di Berlino ha accompagnato quella delle ideologie e ha unificato tutta l'Europa in materia di denaro. Quando c'è quello tutto il resto perde di significato, la nostra qualità della vita è di fatto è superiore come beni al passato ma si è notevolmente abbassata a livello umano. Quando due donne, una africana e una rumena, arrivano a dire "voi italiani pensate sempre ai soldi, ma dov'è finito l'amore?", significa che veramente qualcosa non va.

Veniamo all'attualità, in questo momento il cinema italiano è in guerra con la politica e con il governo, Bondi ha appena dichiarato che non sarà a Cannes come protesta contro Draquila, il documentario della Guzzanti, cosa si sente di dire in proposito?
Daniele Luchetti: Bondi contro Draquila mi suona come un titolo alla Tarantino, un titolo da B-movie. L'immagine che il cinema italiano da all'estero è quella di un gruppo di artisti liberi, non c'è niente di più sacro di un artista che non ha paura di essere ostacolato dal potere e si ribella spogliandosi del ruolo di quello che sputa nel piatto in cui mangia. Un ministro del nostro governo che si vergogna di un film libero e di rappresentare un artista libero sinceramente si definisce da solo...

Il suo film sarà in concorso a Cannes, un concorso di livello altissimo. Con quanta emozione affronterà i riflettori e gli occhi di tutto il mondo del cinema?
Daniele Luchetti: Quando presenti un film a Cannes, che io considero l'ombelico del mondo che ama di più il cinema, non c'è mai niente di scontato, non ci si fa mai l'abitudine a questo battage. Andrò in un Paese che fa 300 film all'anno mentre noi ne facciamo 50 o 60 al massimo. Noi italiani siamo bravi a festeggiare le politiche culturali degli altri. Cannes è un festival molto serio in cui c'è grande attenzione del pubblico e della critica per ogni singolo film, anche per il più piccolo, non a caso si svolge nella capitale del paese del cinema per eccellenza che è la Francia.