Recensione My Son, My Son, What Have Ye Done (2009)

Intuizione stupefacente quella di Herzog: raccontare una banale storia, senza avvitarsi in vertiginosi colpi di scena o rimanere vittima della fascinazione dell'orrore esibito, riuscendo comunque a modellare un senso di profonda inquietudine che va a screziare questa intensa ed ipnotica meditazione sull'uomo e le sue pieghe.

Lo splendore accecante nutre il malessere

Werner, Werner, che cosa hai fatto? Anche tu a scavare nel quotidiano orrore americano, in un mondo che si addobba a meraviglia e coltiva dentro ombre scure e malessere. Si dipana da una villetta di San Diego, incorniciata da cactus e agghindata da fenicotteri d'ogni forma (sia veri che ridotti a meri oggetti d'arredamento), la nuova potente incursione di Werner Herzog nell'animo umano. Il regista tedesco giunge in America sul luogo di un ordinario omicidio da trafiletto di cronaca nera affidando al suo alter-ego investigatore (che ha il volto scavato di Willem Dafoe) il compito di indagare sul percorso di una tragedia già consumata che ha fatto calare morte e tenebre sul più anonimo dei sobborghi statunitensi. Nessun mistero da scoprire, solo un omicida da penetrare per arrivare all'origine del male. Intuizione stupefacente quella di Herzog: raccontare una banale storia, senza avvitarsi in vertiginosi colpi di scena o rimanere vittima della fascinazione dell'orrore esibito, riuscendo comunque a modellare un senso di profonda inquietudine che va a screziare questa intensa ed ipnotica meditazione sull'uomo e le sue pieghe.

Nella selva di tenebre di My Son, My Son, What Have Ye Done, Herzog parte dal punto di vista dell'investigatore, si circonda di "altri" per ricostruire le tappe che hanno condotto al misfatto, ma per riempire i buchi neri è costretto a diventare tutt'uno col protagonista del delitto. Che è un ragazzo (a cui presta il turbamento un convincente Michael Shannon) ossessionato da una madre soffocante che fa rima con orrore e inciampato nell'idea distruttiva di uno splendore accecante, perso nella ricerca di un paradiso in Terra mentre tutti "lo fissano", in quest'ORA che non riesce più a domare. Lo splendore accecante, quel miraggio che lo circonda e che non sa afferrare. Come gli insegna la tragedia greca che sta interpretando a teatro, per interrompere la maledizione (desiderare una cosa che non si può avere) Oreste deve uccidere sua madre; così Brad deve uscire dalla finzione, slegarsi dalle costrizioni delle regole teatrali e farsi da solo la propria tragedia: eccolo allora trafiggere con una spada la donna dalla quale non si libererà mai, ucciderla nella speranza di vederla danzare nel cielo e lì lasciarla per sempre.
Ancora una volta Herzog fa dialogare l'essere umano e la natura. Non potendo per sua indole restare nello spazio limitato di quella stradina d'asfalto e plastica disseminata di villette che fa da teatro al delitto, nei continui flashback che animano il film si addentra in quella natura che in tutte le sue opere, tra fiction e documentari, riempie prepotentemente lo schermo. L'uomo si ritrova così, piccolo e disorientato, nella maestosità del mondo: le rapide, la steppa innevata, le montagne. A confronto con i suoi pericoli e la sua poesia, l'essere umano è chiamato a riflettere su sé stesso e su ciò che è più grande di lui. Brad scopre allora Dio, e in lui tenta di esaurire ogni suo bisogno e le paure. E mentre i poliziotti circondano la sua casa per acciuffarlo, in una delle sequenze più brillanti del film il ragazzo consegna al mondo esterno la parola di un predicatore che fa aprire al cielo le mani degli uomini che sembrano accogliere la chiamata. E' solo una delle tante scene abbaglianti di cui si compone il film, opera densa che cristallizza i momenti, blocca i personaggi in strazianti quadretti carichi di pathos e rivela la tragedia del quotidiano nella progressiva perdita di contatto con la realtà del protagonista.

"Ho trovato il fulcro del mondo" dice a un certo punto Brad. Herzog prova a imitarlo e si lancia alla sua scoperta. Ad aiutarlo le musiche (del fenomeno Ernst Reijsiger) che si insinuano nella narrazione o esplodono maestose (l'uso dei canti sardi, come ci ha già abituato il regista in precedenza, ancora una volta apre il cuore) legando in maniera sublime presente e ricordi, tranne in un unico momento che non può esserci mostrato: la morte si accompagna a un "silenzio irreale". La produzione di David Lynch aiuta a mantenere il film aperto ai guizzi visionari che sono però quelli propri di Herzog, un regista che non può limitarsi nel suo fare cinema ad un livello terreno, ma deve tendere sempre oltre. Il centro, il cuore, l'inconoscibile, ecco dove vuole arrivare Herzog. E' bene quindi allargare gli orizzonti e tenersi aperti per lasciarlo passare. Questo non è un semplice film, e non può essere incasellato in un genere: è arte che eleva lo spirito.