Recensione La regina dei castelli di carta (2009)

Vendetta a ritmo punk per il capitolo finale della trilogia Millennium che ha lanciato e confermato Lisbeth Salander come una figura cinematografica dark che faremo fatica a raschiare dall'iconografia contemporanea europea.

Lisbeth Salander: le origini del male

Intricati giochi di spie dei servizi segreti, thrilling da legal movie patinato, La regina dei castelli di carta contamina i generi in un'architettura poco originale, ma non lascia adito a dubbi: siamo di fronte al rush finale della trilogia cult più famosa e apprezzata degli ultimi anni in Europa. Ultimo episodio della saga Millennium, giunta a termine solo in Svezia dal momento che è già in preparazione un remake tutto hollywoodiano, il film diretto da Daniel Alfredson, già regista del precedente La ragazza che giocava con il fuoco, sviluppa un episodio sicuramente poco incisivo dal punto di vista cinematografico: se la messa in scena sembra abbia esaurito il fattore sorpresa al punto che manca quella tensione che aveva caratterizzato gli altri episodi, in particolare Uomini che odiano le donne, è quello visivo a delinearsi subito come atono.
La trasposizione del terzo romanzo di Stieg Larsson, avvincente e geometrico, è piatta e monotona e, più che il risultato di un'operazione di traduzione tra linguaggi, si delinea come una sorta di compattamento della trama in cui l'azione, che aveva conformato la pellicola precedente, è risucchiata voracemente da una narrazione agonizzante. Il regista ha la mano più ferma rispetto al passato, in cui le inquadrature erano altalene instabili poco apprezzabili, ma la sua fragilità visiva e la sua gestione pasticciata dei tempi continuano a farci ricordare con nostalgia la tempra del danese Niels Arden Oplev, più bravo nello scandagliare le vite e le personalità dei protagonisti scandendole senza sbavature ritmiche in Uomini che odiano le donne.

Se il ralenti destabilizza la fiction congelandone le immagini, insistite e opacizzate, ha però il merito di afferrare l'urgenza della ricerca nei meandri dell'oscuro passato di Lisbeth Salander e del mostruoso padre Alexander Zalachenko e di restituircela incalzando sui drammi dei terribili abusi sessuali, delle vicende familiari e del trattamento medico. Lo spettatore capirà dalla prevedibile apertura, una semplice giuntura temporale con il film precedente, che dovrà affidarsi al plot integralmente, dimettersi alla forza convincente della storia per sottrarsi a un giudizio critico sull'opera cinematografica che ne ridurrebbe la godibilità. È la storia infatti che inchioda alla poltroncina i fan della saga, che muoiono dalla voglia di vedere la loro tenebrosa beniamina alle prese con nuove rischiose missioni e succulente vendette. Avevamo lasciato Lisbeth in pessime condizioni dopo lo scontro biblico con il padre Zala e con l'imbattibile "gorilla biondo", il fratellastro Niedermann. Scampata alla morte, la ragazza dovrà affrontare ora gli ex agenti di un gruppo deviato dei servizi segreti svedesi, colleghi del padre, che la vogliono uccidere per insabbiare le azioni criminose commesse. A mettere in pericolo la loro copertura è la pubblicazione di un numero speciale della rivista Millennium che Mikael Blomvkist sta realizzando per difendere pubblicamente la ragazza, accusata di duplice tentato omicidio. Mentre implodono rischiosi conflitti nei due gruppi, tra gli agenti deviati in età ormai pensionabile ma sempre spietati e all'interno della redazione dove è messa a repentaglio la vita di ognuno, Lisbeth, nella sua camera d'ospedale prima e nella cella dopo, affina le sue capacità e si allena per combattere una congiura che la vuole di nuovo con la camicia di forza e per vendicarsi, come la più temibile delle vendicatrici tarantiniane, dei consanguinei ancora in vita.

Noomi Rapace sostiene bene il ruolo che rischia di avvinghiarla nell'immaginario collettivo nella mascolinità da kickboxer di Lisbeth, ma gli intrighi politici con cui il regista cerca di abbindolare i suoi stanchi spettatori assorbono perfino la sua interpretazione marginalizzandola come una presenza fantasmatica indebolita, che si trascina per l'intera durata del film. Regge il confronto con la protagonista l'eroe floscio Mikael Blomqvist (un Michael Nyqvist sottotono), angelo salvifico che è impegnato sentimentalmente con la collega Erika e che quindi delude le aspettative di quanti attendevano un tenero sviluppo. A togliere spazio ai protagonisti è lo snodo centrale del processo, che occupa oltre la metà del secondo tempo, dilungato e annacquato con prolissi risvolti legali da ping pong asfittico.

Il paesaggio scandinavo si restringe quasi come a recintare in confini meno labili la storia: le distese del prequel scompaiono e sono sostituite dagli interni, che rendono perfino più fonda l'atmosfera. Le strade della metropoli sono tetre e quasi svuotate come se fossero pronte ad accogliere nella morsa plumbea del suo torpore i suoi abitanti. Ereditata dal David Lynch de I segreti di Twin Peaks la dimensione morbosa che raggruma le atmosfere del giallo deviandole in un nuovo percorso sensoriale e narrativo, la trilogia Millennium ha cambiato, prima con i prodotti letterari poi con le trasposizioni schermiche, il gusto del grande pubblico modellandolo su un nuovo genere che travalica le categorie cablando immagini, stile e cultura disomogenei. Lo svedese Stieg Larsson, autore dei romanzi, è riuscito a comporre un'opera unitaria caratterizzata da un clima glaciale che rabbrividisce gli utenti in incubi e deliri di ultima generazione e li trascina in pruriginosi rituali violenti indecifrabili come certi Funny Games hanekeiani.

Esattamente com'era successo ne Il silenzio degli innocenti la storia di Lisbeth Salander, che faremo fatica a raschiare dall'iconografia contemporanea, ci ha portato per mano in una detection inesorabile come uno scalpello paziente per poi abbandonarci ogni volta nel buio dell'anima della protagonista, tracciata qui da un'immagine fumettistica da eroina dark come la cameroniana Dark Angel della tv, attanagliandoci nel suo spazio tenebroso. Le trasposizioni cinematografiche, in particolare il più intrigante predecessore Uomini che odiano le donne, sono riuscite a vivisezionare la memoria recisa della guerriera solitaria, vittima di una ferocia paterna insostenibile e dell'agghiacciante sadismo di uno psichiatra pedofilo, come in un noir efferato proiettando gli spettatori nel suo inferno. Come aveva fatto Hannibal Lecter con l'agente Clarice Starling, Blomkvist mette a nudo i drammi del passato della Salander: nell'istante stesso in cui ha iniziato ad aiutarla, lei ha dovuto svelargli i punti nevralgici della sua storia consegnandogli e consegnandoci l'intimità del suo dolore, quello di una dodicenne a cui la polizia non ha voluto credere (tema che ricorda il thriller danese Il senso di Smilla per la neve).

La psicologia di Lisbeth, seviziata dal gelido Zalachenko e dal corrotto Teleborian, fuoriesce dallo schermo e raggiunge la sensibilità degli spettatori anche attraverso l'immagine del suo corpo: l'ossessione corporea, tipica del cinema americano cult dei "guastatori" John Carpenter, David Cronenberg e David Fincher, viene recuperata nella trilogia per demistificare un femminismo vulnerabile d'antan e per impiantare nell'opera filmica un singolare rapporto speculare tra il corpo e l'anima. Il look diventa un'estensione del personaggio, una protesi incisiva e immaginifica che trasforma il corpo in una muta potente e paurosa che l'androgina motociclista, l'hacker ingegnosa, la borchia umana tatuata della brava Noomi Rapace dagli occhi neri come la pece mutua in un autentico soggetto visivo di un'epica contemporanea in stile punk, un nuovo prototipo di figura femminile venuta, finalmente, dal cyberfuturo europeo.