Recensione No Direction Home: Bob Dylan (2005)

207 minuti suddivisi in due DVD, della durata rispettiva di 2 ore e di un'ora e mezza. Questo è No direction Home: più di un semplice documentario o del rockumentary già sperimentato con L'ultimo valzer, un'opera musical-cinematografica travolgente e intensa che racconta Robert Allen Zimmerman universalmente conosciuto come Bob Dylan.

Like a Rolling Stone

207 minuti suddivisi in due DVD, della durata rispettiva di 2 ore e di un'ora e mezza. Questo è No direction Home: più di un semplice documentario o del rockumentary già sperimentato con L'ultimo valzer, un'opera musical-cinematografica travolgente e intensa che racconta - negli anni compresi tra il 1961 e il 1966 - la nascita, l'apice ma anche la svolta dolorosa di uno dei musicisti maggiormente influenti e innovatori del XX secolo, Robert Allen Zimmerman universalmente conosciuto come Bob Dylan.

Selezionando momenti salienti dell'intervista-fiume di dieci ore che Jeff Rosen - manager e amico di Dylan - ha realizzato nell'arco di cinque giorni all'artista, e alternandoli a racconti dei protagonisti dell'epoca (Joan Baez, Allen Ginsberg, Dave Van Rank che dichiara "se esiste un inconscio collettivo americano, Bob ci ha messo le mani dentro") e a preziosi filmati inediti di repertorio (tra cui gli outtakes girati alle edizioni del Newport Folk Festival e _Don't Look Back_d i D.A. Pennebaker), Martin Scorsese dimostra ancora una volta di essere uno straordinario regista, capace di fondere in modo potente colonna sonora e colonna visiva, ma soprattutto un appassionato narratore dell'America e delle sue figure cardine più emblematiche e rappresentative. Senza però mai scadere nell'agiografia, come avevano dimostrato le anomale e controverse biografie realizzate con Kundun e The Aviator.
Se la prima parte di No direction Home: Bob Dylan si concentra sugli esordi della carriera del cantautore, dalle origini in Minnesota al viaggio iniziatico compiuto alla fine degli anni Cinquanta nel Greenwich Village, quartiere bohémien newyorchese per eccellenza, giungendo fino alla consacrazione a icona del folk, il secondo atto vira invece sulla tormentata tournèe inglese di Dylan nel 1966, che segnò in maniera decisiva la sua vita professionale e umana.

Scorsese suggerisce nell'impianto audiovisivo, confermandolo poi di persona in occasione della presentazione di Bologna, che una delle due chiavi di lettura del documentario è racchiusa negli occhi di Dylan, piantati in primo piano verso lo spettatore, piuttosto che nelle sue parole, altrettanto importanti ma spesso contraddittorie. Occhi malinconici che non sembrano guardare l'interlocutore Jeff Rosen, ma che fuggono altrove, lontano. Abile è il raccordo di sguardo che ci riporta al Dylan ventenne, assurto in pochi anni a simbolo della musica folk, musica che all'inizio degli anni Sessanta diventa negli Stati Uniti sinonimo di protesta giovanile e di movimento dei diritti civili contro la segregazione razziale e la guerra in Vietnam. No direction Home non è solo l'odissea privata di Bob Dylan, ma rappresenta anche lo spaccato nitido e illuminante di quella stagione irripetibile nella storia americana e mondiale. La seconda linea narrativa fondamentale è data, infatti, dalla restituzione dell'impatto emotivo e sociale di eventi nevralgici: il fermento culturale, musicale e artistico portato da Andy Warhol e dai Beatles; la marcia della pace di Washington alla quale Dylan partecipò esibendosi; l'assassinio di John Fitzgerald Kennedy nel 1963 a Dallas e l'esecuzione del suo presento carnefice Lee Harvey Oswald. Intanto Bob Dylan cantava A Hard Rain is gonna Fall e si faceva portavoce di quella generazione, che riconosceva nelle parole delle sue canzoni i sentimenti che l'agitavano e le idee che la muovevano. Adottato, esaltato e coccolato dalla sinistra liberale americana, Dylan non esitò però a scrollarsi di dosso l'etichetta politica che l'intera opinione pubblica gli aveva attribuito. E lo fece abbandonando la melodia folk per il rock di Like a Rolling Stone e per la musica elettrica eseguita con gli Hawks (gruppo che divenne poi The Band, il cui addio alle scene è immortalato ne L'ultimo valzer).
La reazione del pubblico e degli altri artisti alla virata operata dal folksinger fu incontrollabile e violenta: si gridò al tradimento non solo dei suoni folk ma soprattutto di quegli ideali democratici che venivano veicolati dalle liriche del cantautore. Per questo la tournèe inglese costituisce il contraltare simbolico al quale va ricondotto tutto il discorso filmico: i fischi, i boati di disapprovazione, le ingiurie del pubblico (che pure osannava la parte folk del concerto) che scandirono le sue esibizioni danno la misura del rapporto di amore-odio che univa in maniera viscerale Dylan e i suoi fan. Pur uscendo profondamente turbato dall'esperienza britannica che, complice un misterioso incidente in moto, lo condurrà a evitare esibizioni live per otto anni ("voglio soltanto tornare a casa", confessa a un funzionario inglese), Dylan continuerà imperterrito nel suo percorso artistico individuale, non scendendo mai a compromessi con il proprio pubblico. "Non sono mai stato quel tipo di cantante che vuole essere uno di loro, voglio dire uno del pubblico. Non cerco di piacere." Ed è in virtù di questa parabola politica di ascesa, trionfo, declino e sopravvivenza che Bob Dylan rientra pienamente nella galleria degli eroi scorsesiani, così come viene definito dal critico dei "Cahiers du cinéma" Antoine Thirion. C'è molto Bob Dylan in No Direction Home, ma c'è anche molto Martin Scorsese.