Recensione L'enfer (2005)

Tanovic gioca a fare l'autore, traducendo in immagini una storia non sua. Ne viene fuori qualche forzatura poetica di troppo, un eccesso di melò che Kieslowski avrebbe saputo smussare se ne avesse avuto il tempo, una storia senza ritmo che resta sempre gelida, priva di un'atmosfera avvolgente, quella che le carrellate circolari e le inquadrature dall'alto vorrebbero affannosamente costruire.

Le fiamme dell'inferno

Prima di morire Krysztof Kieslowski, indimenticato regista de Il decalogo e La doppia vita di Veronica, pensò bene di dare l'addio al mondo del cinema con un personalissimo testamento in tre atti: una nuova trilogia, dopo quella dei colori, dedicata ad Inferno, Purgatorio e Paradiso, ideata e scritta a quattro mani con Krzysztof Piesiewicz, il collaboratore di sempre. Secondo le intenzioni del grande regista polacco, le sue tre "cantiche" dovevano essere dirette da altrettanti registi in tre differenti paesi: l'Inferno in Francia, il Purgatorio in Spagna, il Paradiso in Italia. Il primo a cimentarsi nell'impresa di maneggiare una sceneggiatura di Kieslowski senza farne rimpiangere la sua mano inconfondibile - di poeta amatissimo dal pubblico - fu Tom Tykwer, che girò Heaven tra Torino e la campagna toscana, realizzando un autentico gioiello, un racconto di vendetta, amore e redenzione immerso in un'atmosfera sognante e forte di una delle più intense interpretazioni di Cate Blanchett. Sfortunatamente passò al cinema in sordina e in molti non lo capirono, ossessionati da scontati e fuorvianti paragoni.

A distanza di qualche anno è Danis Tanovic, regista premio Oscar per No man's land, a mettere mano ad un altro capitolo della trilogia, quello relativo all'Inferno, ancora in progress al momento della morte di Kieslowski. A firmare la sceneggiatura de L'enfer è, quindi, il solo Piesiewicz, che da voce a tre sorelle vittime del destino (tema cardine di tutta la filmografia di Kieslowski), sprofondate in tre differenti solitudini a causa di un dolore, misto a vergogna, per un padre incarcerato per pedofilia e poi morto suicida dopo essersi trovato faccia a faccia con il proprio fallimento. La madre, dopo questi eventi che hanno sconvolto la famiglia, si è invece trincerata dietro un mutismo che la tiene lontana da tutto, in una casa di riposo, dove le fa visita una sola delle tre figlie: Celine, la più sola, l'unica a non aver mai conosciuto l'amore e i drammi che lo accompagnano. Le altre due sono, infatti, martiri di relazioni finite male, dalle quali faticano a riprendersi. Tutte e tre, dopo una sconcertante rivelazione, dovranno rimettere in discussione l'intera loro esistenza, ridistribuire colpe e trovare un nuovo posto nel mondo.

Una storia che ben fotografa la nostra epoca e non fa sconti a nessuno. L'inferno è qui, nella vita di tutti i giorni, nel chiuso delle nostre case, negli errori, nelle menzogne, nei tradimenti. L'orrore è tutto dentro gli uomini, che, generazione dopo generazione, pagano a caro prezzo i loro desideri, l'angoscia e l'insoddisfazione. Non ci sono vie d'uscita: l'amore non esiste, se non nelle fantasie "da cinema", nei complessi edipici irrisolti, nell'ostinazione infantile a volere accanto qualcuno che ci ha traditi, la famiglia si è disintegrata e ha sparso in giro i suoi pezzi, vicini eppure lontani, la fede è svanita e le porte delle chiese rimangono chiuse. In una società secolarizzata come la nostra, l'inferno sta nell'apocalissi della quotidianità, nel continuo confrontarsi, giorno per giorno, con le verità, quelle taciute e quelle svelate. Ne L'enfer non si sorride mai ed è questo il muro contro cui coccia Tanovic. Con No man's land era riuscito a mettere in piedi una storia in perfetto equilibrio tra dramma e commedia, sopra una mina che raccontava più di mille parole la condizione di un popolo incastrato in guerra, nella ex Jugoslavia. Ne L'enfer non c'è spazio per i sorrisi, niente sarcasmo o ironia, solo musi lunghi, e il regista bosniaco sembra non saper bene come districarsi in questo pantano.

Tanovic gioca a fare l'autore, traducendo in immagini una storia non sua. Ne viene fuori qualche forzatura poetica di troppo, un eccesso di melò che Kieslowski avrebbe saputo smussare se ne avesse avuto il tempo, una storia senza ritmo che resta sempre gelida, priva di un'atmosfera avvolgente, quella che le carrellate circolari e le inquadrature dall'alto vorrebbero affannosamente costruire. Si resta impantanati nell'ingordigia di metafore semplicistiche, negli insetti intrappolati nel bicchiere che sanno di déjà vu, nelle piante morte che possono resuscitare se qualcuno si occupa di loro, nel bianco che da sulla vita e nel buio che ammanta la morte. Le sorelle belle sono la musa di Francia Emmanuelle Béart e Marie Gillain, ma le storie dei personaggi che interpretano sono trite e senza guizzi memorabili. Più interessante il percorso di Celine (Karin Viard), bambina ingannata dai suoi stessi occhi, che vivrà una vita immersa in un vuoto cosmico, per poi ascoltare la verità e provare a fare pace col passato. Nel film ad ogni distruzione segue sempre una rinascita, anche se si perde in innocenza. Resta questo di buono. E una Parigi al solito magnifica.