Le due anime degli States

Il potere e l'ingiustizia, la vendetta e la passione, il sangue e l'orgoglio. Due personaggi che si fronteggiano costantemente ma che, probabilmente, non sono poi tanto diversi. In altri termini: la nascita di una nazione secondo Martin Scorsese.

Nelle mani di un regista come Martin Scorsese, la sceneggiatura di un film costituisce esclusivamente il sostrato di uno scopo più vasto: quello di scolpire la celluloide grazie al vigore ed alla "negatività" umana dei personaggi da un lato, e all'impatto emotivo delle inquadrature dall'altro. Anche il nuovo Gangs of New York non si discosta molto da quest'approccio ma con un afflato epico, e lirico allo stesso tempo, che per il regista italo-americano non è consuetudine. L'adattamento cinematografico del romanzo di Herbert Asbury acquista, grazie a Scorsese, un peso specifico decisamente al passo con i tempi, invero con qualche eccesso di troppo, ma sempre con una puntigliosa ricerca di un significato superiore d'attribuire alla ferocia con cui i vecchi e nuovi immigrati si scontravano nella Grande Mela, tra orgoglio nazionalistico e onore di famiglia.

Gangs of New York è quello che C'era una volta in America è stato per Sergio Leone e la saga de Il padrino per Francis Ford Coppola.
La brutalità e la spietatezza s'impadroniscono del film sin dai primi minuti, insanguinando le strade nelle quali sarebbe nata la moderna metropoli newyorkese, simbolo più che mai dell'America attuale, con i suoi pregi e le sue contraddizioni. Stupendo, a tal proposito, il finale del film con lo skyline che si evolve davanti ai nostri occhi, per via di alcune dissolvenze incrociate, fino ad assumere l'aspetto odierno. Tale trasformazione è avvenuta meravigliosamente ponendo in primo piano le lapidi dei capibanda delle due gangs rivali, per poi farle dileguare del tutto nella chiusa del film. Qui il senso di straniamento e d'impotenza dinanzi all'inarrestabile gorgo della Storia è massimo, come significativa è la nascita della moderna nazione americana (quasi in termini griffithiani) dalle ceneri dei due "eroi" del passato, ovvero delle due grandi anime degli States di ieri e di oggi: quella audace, violenta, intollerante, con mire espansionistiche del moderno imperialismo (per usare una terminologia cara a marxisti e no global) e quella sentimentale, incantata, fraterna ed accogliente del ben noto American Dream. Due anime che nel film s'incontrano e si attraversano vicendevolmente, facendoci parteggiare per entrambe.

Merito soprattutto di Daniel Day-Lewis che è assolutamente straordinario. La crudeltà del suo Bill "The Butcher" è talmente grottesca e piena di battute sarcastiche che quasi ci si dimentica della bestialità del "nativo". Anche Leonardo DiCaprio, con la sua incerta, immatura e accomodante ricerca della vendetta, è convincente (forse è questa la sua prova migliore in assoluto fino ad ora), seppur soffocato dal furore interpretativo di Day-Lewis. E si trova proprio qui una delle prime incoerenze poetiche del film, se si considera che il personaggio di DiCaprio dovrebbe essere, nella logica scorsesiana, il vero protagonista del film, l'alter ego di tanti eroi comuni in cerca di un riscatto sociale e le cui ambizioni sono perennemente frustrate o realizzate in modo squallido. In Gangs of New York, invece, il cineasta italo-americano privilegia l'altro "fronte", quello meno ambiguo e più delineato, nella sua violenta e quasi sardonica attitudine, di Bill "The Butcher". Non che il personaggio interpretato da Daniel Day-Lewis sia privo di contraddizioni. Esso è, in ogni caso, sprovvisto della multivalente e sfuggente personalità, ad esempio, del Robert De Niro di Taxi Driver (e proprio De Niro doveva impersonare originariamente il ruolo di Bill "The Butcher"). Questa particolarità forse può essere considerata come l'ennesima svolta nel cinema di Scorsese, seppur mantenendone immutate le qualità di fondo. Svolta che trova il suo punto di convergenza proprio nella sequenza finale, quando le due anime s'incontrano diventando idealmente un tutt'uno sullo sfondo di una New York in continua espansione.

Decisamente in secondo piano è, invece, Cameron Diaz alla quale, però, bisogna riconoscere di aver bene impersonato la sua parte, e ciò grazie al contrasto tra la dolcezza dei suoi lineamenti e la vivacità richiesta dalla parte. Ed è proprio il paradosso uno dei motivi principali di tutto il film come di tutta l'opera di Scorsese, sicuramente uno dei più sinceri e dei più veritieri cineasti del cinema a stelle e strisce.