Le belve: Oliver Stone parla del film con Salma Hayek e John Travolta

Il regista americano ci ha parlato del suo nuovo film: un noir tratto da un romanzo di Don Winslow che si vale di un cast d'eccezione, tra cui spiccano John Travolta e Salma Hayek.

Il nuovo film di Oliver Stone è apparentemente quanto di più distante si possa immaginare dal precedente Wall Street: Il denaro non dorme mai. Denuncia sociale e furore anti-sistema da una parte, cinema di genere con spruzzate pulp dall'altra; revival anni '80 contro estetica traslucida e vagamente videoclippara; una storia originale, incentrata su temi che il regista americano (per tradizione familiare) mastica da sempre, contro un romanzo di un autore tra i più importanti del poliziesco americano, Don Winslow. Eppure, per quanto ludico nell'approccio e un po' modaiolo nell'estetica, il film di Stone contiene alcuni dei suoi temi di sempre, dalle riflessioni sul potere ai temi del proibizionismo e dei rapporti tra politica ed economia, fino al fantasma delle (tante) guerre in cui l'America è stata impegnata nella sua storia recente. Tutto condensato in un contenitore di genere visivamente curato e dal ritmo vivace, sostenuto da un ottimo cast. Tra le presenze di quest'ultimo abbiamo potuto incontrare, insieme al regista, John Travolta e Salma Hayek: tutti e tre ci hanno parlato del film e della sua genesi, oltre che dei temi da esso trattati.

Cosa vi attirava della sceneggiatura e dei vostri rispettivi personaggi?
John Travolta: Era una storia molto attuale, che descriveva situazioni che potevano verificarsi ovunque. Una storia fresca, senza luoghi comuni; posso dire che tutto ciò che amo vedere in un film era contenuto in questa sceneggiatura. Il personaggio era più interessante di quanto mi fossi reso conto a un primo impatto, ogni giorno ne emergevano lati diversi.
Salma Hayek: Io ho una tale stima di Oliver, che avrei fatto il film pure se mi avesse chiesto di interpretare un albero! Ho capito poi, comunque, che era un grande personaggio.

Ci sono differenze nell'approccio, tra lavorare tra materiale originale o tratto da libri?
Oliver Stone: Qualche contrasto con Winslow c'è stato, ho dovuto apportare diversi cambiamenti alla storia; non sempre lui e il co-sceneggiatore Shane Salerno erano d'accordo con questi cambiamenti, ma alla fine è il regista che ha l'ultima parola. Abbiamo avuto delle divergenze, ma alla fine lui ci ha sostenuto, ha partecipato alla promozione del film. Abbiamo ridotto il tutto a una ventina di scene e a una sola voce narrante, mentre nel libro ce n'erano diverse; il finale si è duplicato, e il personaggio di John è quello che è stato cambiato maggiormente: era uno dei personaggi più deboli del libro, ma la sceneggiatura lo ha migliorato. Il libro è bello da leggere, ma lo si legge nel tempo, mentre il film dev'essere subito tutto sullo schermo, a 360 gradi.

Delle tante voci narranti del libro, perché ha scelto proprio quella di Ophelia?
Per me la voce di O. è quella più importante. Il fatto che, fin dall'inizio, dichiari che non si sa se sia viva o meno la rende incerta, inaffidabile.

Nel film i messicani pongono una domanda: "Il vostro popolo quando penserà a un futuro?" Lei pensa che l'America ce l'avrà un futuro?
Gli americani devono fare i conti alla guerra alla droga, che da 40 anni non sortisce risultati, e spesso colpisce le persone sbagliate, i consumatori anziché i narcotrafficanti. E poi ci sono le altre guerre, quelle in Iraq e in Afghanistan: per me non c'è un futuro nella guerra. Quello di Salma, per esempio, è un personaggio particolare: ha avuto il marito ucciso dalla guerra, è diventata una criminale per necessità, per salvare i propri figli. E' una guerra, quella alla droga, in cui nessuno alla fine si salva.

Chi sono oggi le "belve"? I politici, i banchieri, la finanza?
Il titolo è di Winslow, e si riferisce ai personaggi del film. Comunque, nella storia tutti diventano belve, compresi Salma e Ben. Tutti fanno un gioco sulla morale, e tutti sono ambigui.

Conosce il cinema italiano? Qualche titolo l'ha ispirata?
No, questo è un film molto specifico, non ci sono riferimenti ad altre pellicole. Winslow ha scritto della guerra alla droga in America, è quello il tema. E' una finzione, ovviamente, una situazione ipotetica ma possibile.
John Travolta: Aggiungerei che il cinema, negli ultimi anni, è diventato scuro, è fatto di immagini in cui quasi non si riconosce più nessuno. Con questo film siamo tornati a una fotografia più luminosa, a immagini più solari nonostante l'oscurità delle storie raccontate. E' un film con una doppia anima quindi, come lo yin e lo yang.
Salma Hayek: Credo dal film emerga anche il fatto che dobbiamo cambiare il nostro modo di comportarci. Se si persegue solo il proprio interesse, senza rendersi conto di far parte di una comunità, ci si trasforma in selvaggi. Per questo dobbiamo sforzarci di capire cosa è buono per la comunità, e agire di conseguenza.

Travolta, lei ha interpretato ruoli diversi nella sua carriera. C'è qualche ruolo che le manca e che vorrebbe riproporre oggi? John Travolta: C'è una frase di Tennessee Williams che dice: "io dipendo da una gentilezza sconosciuta". Io, invece, dipendo dall'immaginazione degli scrittori: sono sempre stato la musa di qualcun altro, non sarei mai stato in grado di scrivere la metà di quello che scrivono loro. Il mio lavoro è recitare per menti brillanti. Anche in questo caso c'è stata una scoperta graduale del personaggio, a strati. Mi piace portare in vita personaggi come questo, complessi e sfaccettati.

Hayek, donne come quella che lei interpreta, che gestiscono attività criminali, esistono anche nella realtà. Come si immagina la loro vita reale? Salma Hayek: E' vero, ci sono donne che assumono ruoli preponderanti nei cartelli della droga: a questo proposito, abbiamo fatto ricerche dettagliate e parlato con tante persone. Le donne che fanno questo mestiere sono diverse dagli uomini, sono tutte dedicate agli affari e non influenzate dall'ego, non creano guerre perché sanno che ciò potrebbe influire sul business. Io spero che gli spettatori, da questo film, capiscano che acquistare droga significa prendersi una responsabilità: quando si acquista droga qualcuno muore, si instaura un circolo di violenza di cui si è corresponsabili. Bisogna essere consapevoli quando si fanno le cose, non agire come robot.

Travolta, impressioni sulla sua "prima volta" con Oliver Stone? John Travolta: Mi è piaciuto lavorare con lui, perché pone delle sfide costanti e lavora moltissimo con gli attori. Si aspetta che facciano "i compiti a casa", che si studino bene le parti. Vuole il massimo, non accetta niente di meno.

Stone, che cosa l'ha attratta, di preciso, di questo romanzo? Oliver Stone: Non avevo mai letto un libro di genere noir/poliziesco che avesse questa originalità. E' una storia senza luoghi comuni, che cambia faccia più volte; il primo atto è una specie di omaggio alla vita da spiaggia, il secondo un noir messicano, col cartello della droga, la tortura e le prigioni; il terzo, un western moderno con le automobili al posto dei cavalli. Un'altra caratteristica notevole è che un cartello messicano adotti i metodi di tortura della guerra irachena.

Qual è il suo giudizio sulle presidenziali in America?
Io vedo le cose in modo un po' più ampio rispetto a quello di una semplice elezione. Di questo parlerò nel mio prossimo film, che sarà un documentario sulla storia americana. Un ragionamento superficiale ci dice che se vincesse Romney si tornerebbe a un'America stile-Bush, mentre con Obama ci sarebbe ancora qualche speranza di rinnovamento. Ma il discorso non può che essere più ampio.

Sono i narcotrafficanti i selvaggi del film? John Travolta: In un certo senso sì, ed è interessante la differenza con la mafia. Il cartello messicano non ha limiti, mentre la mafia, per esempio, potrebbe non essere così spietata con donne e bambini.

Hayek, lei preferisci ruoli comici o drammatici? Salma Hayek: Io amo i ruoli ben scritti, e lavorare con persone di livello. Mi piace aggiungere spessore ai miei personaggi: qui ho mostrato come Elena possa essere diversa a seconda dei personaggi con cui interagisce. Mi è piaciuto mostrare le diverse facce del personaggio. La sua linea di base, comunque, è la solitudine.

Stone, lei ha vinto tre premi Oscar, e ha un percorso disseminato di riconoscimenti. Qual è il segreto del suo lavoro? Oliver Stone: In un certo senso, mio padre mi ha spinto nella giusta direzione: mi ha detto "non dire la verità perché ti creerà problemi". Sono nato nell'inizio della nuova era americana, ho avuto un'educazione conformista ma poi ho acquisito maggiore consapevolezza di ciò che mi sta intorno: una consapevolezza che trasmetto con i documentari e i film.

Alla fine del film c'è un omaggio al western. E' affascinato dal genere, e ha mai pensato di girarne uno?
Sì, i film western mi piacciono perché hanno a che fare con le scelte morali. Comunque il mio è un film originale, in sé, non è legato a un genere specifico... forse si può definire un western con tanti elicotteri!

Come è andato il lavoro con Benicio Del Toro?
Ci siamo divertiti molto, con Benicio, è un attore tra gli attori. Ha un'ossessione per il dettaglio, John e Salma lo sanno; John mi ha detto letteralmente "lui mi ha fatto lavorare con il suo sguardo".

Qual è la fase che lei preferisce nella lavorazione di un film? La preparazione, la produzione o il montaggio?
Non credo di avere una scelta, è un processo: bisogna fare ognuna di queste tre tappe, e ognuna è fondamentale per la successiva. La preparazione è complessa, ma è soltanto una prova; la prova non viene mai trasposta così com'è su film. La produzione ha i suoi problemi, ci sono personalità ed egoismo, limiti e fattori logistici; c'è bisogno di molto lavoro se non di un miracolo, per fare tutto senza errori, anzi è impossibile non fare errori. L'importante è che ci sia un ritorno nei propri scopi. C'è una fase entusiasmante in cui la sceneggiatura viene esplosa, adattata, fatta crescere. Il montaggio invece riduce, bisogna estrarre l'essenza da quello che si è fatto, è un po' come un'altra opera di sceneggiatura; non c'è più modo di modificare quello che hai fatto, dopo, è un'esperienza in cui ci si scopre umili, perché ci si rende conto che ci sono ancora molte cose da risolvere, quando magari si pensava di averle già risolte. E' un lavoro che richiede disciplina e rigore, ma non bisogna essere nemmeno troppo critici con sé stessi. Bisogna trovare un equilibrio. Dopo 19 film non rifarei le stesse scelte che ho fatto con la stessa leggerezza: per me ogni film è stata come una guerra.

Il personaggio di Aaron Johnson affronta la vita servendosi della filosofia buddista. E' un fatto piuttosto insolito, nei suoi film. Qual è il suo rapporto con la religione?
Sono vicino al buddismo, ma non credo che questo abbia influenzato il film. Alex è una persona impegnata socialmente, crede nell'uso terapeutico della marijuana, cerca di servirsene per aiutare gli altri. Infatti l'uso di questa pianta non è affatto negativo, in sé, ciò che è sbagliato è la politica del proibizionismo.

Restando sul tema delle droghe, crede che il tentativo dei protagonisti di crearne un traffico pacifico e senza violenza fosse destinato per forza a fallire?
Intanto è sbagliato parlare in generale di droghe, le vere droghe sono quelle chimiche. La marijuana è una pianta che cresce in tutto il mondo, non si può definirla una droga: già la parola droga fa venire in mente i criminali. E' una pianta che anche da noi, in alcuni stati, viene venduta in farmacia, aiuta ad alleviare i dolori, è terapeutica per molte malattie; l'unica violenza che esiste è quella dei cartelli e di coloro che decidono di tenere questa sostanza illegale. Il passo dalla guerra alla droga a quella al terrore, poi, è breve: qualcuno ha interesse a che questa guerra venga combattuta, è una guerra estremamente politica. Noi siamo il paese che, al mondo, ha il sistema carcerario con più detenuti rinchiusi per reati legati all'uso di droghe. Questo è significativo.

Il film molto contemporaneo, ma i protagonisti fanno pensare un po' agli anni '60: c'è un mood da pace, amore, libero sesso... è un periodo che in qualche modo lei ha voluto riproporre oggi?
Non c'è nulla di male nei '60. Il problema, semmai, è che il mondo è andato più a destra. Le rivoluzioni in quel periodo ci sono state ovunque, in America come in Europa: io, purtroppo, quel periodo non l'ho vissuto perché ero in Vietnam. Mi sarebbe piaciuto che gli anni '60 fossero proseguiti, credo che da lì siano emerse molte cose positive, come l'emancipazione delle donne e delle minoranze.

Siamo tutti selvaggi, in un certo senso?
Se i governi creano delle pessime leggi e rendono remunerativo andare contro di esse, ciò porterà le persone ad essere più selvagge. Noi americani, quando andiamo in un altro paese diventiamo più selvaggi, questo è successo sempre nella nostra storia. Diventiamo selvaggi noi e creiamo altri selvaggi, quei popoli che reagiscono alle nostre aggressioni.

Lei ha idee scomode, politicamente scorrette. Quanto le ha pagate nella sua carriera?
Questo dovete deciderlo voi. Io sono qui e faccio ancora film e documentari. Quello nuovo, che sto completando ora, sarà il più importante della mia carriera. Avrà una durata di 10 ore, e si intitolerà La storia mai raccontata degli USA. Sarà una ricognizione sulla nostra storia, e su come dalla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti abbiano tradito la loro identità: questo, in nome dell'ossessione per la sicurezza, con l'unico risultato di creare paura nei cittadini.