Recensione Toro scatenato (1980)

Un ritratto graffiante e realistico di uno dei più grandi pugili della storia e allo stesso tempo una profonda analisi, ricca di significati extrabiografici e simbolici, su di un personaggio ossessionato e soverchiato dall'abbraccio matrigno della sua cultura.

La vita di un pugile tormentato

Tratto dall'autobiografia di Jake La Motta e progettato per il 1975, Toro scatenato è probabilmente il film più straordinario nella ricchissima filmografia di Martin Scorsese; di certo, quello che ai tempi della sua uscita (siamo nel 1980), lo inserisce definitivamente nel novero dei registi più importanti della storia del cinema, confermando le qualità migliori del suo cinema e l'impatto enorme che ebbe Taxi Driver. Un ritratto graffiante e realistico di uno dei più grandi pugili della storia e allo stesso tempo una profonda analisi, ricca di significati extrabiografici e simbolici, su di un personaggio ossessionato e soverchiato dall'abbraccio matrigno della sua cultura. Ne consegue una pellicola di grande potenziale tragico, dove tutto ciò che è mostrato è pensato ed ha realmente un significato forte e che in virtù di questo e di scelte stilistiche assolutamente sublimi, si imprime indissolubilmente nella memoria dello spettatore.

Toro scatenato è, inoltre, come tutti i grandi capolavori, un manifesto delle potenzialità espressive del cinema a trecentosessanta gradi. Costruito su un ritmo morbido ma incalzante, fatto di progressioni e momenti più contemplativi e su un'azzeccata strutturazione temporale a salti e capitoli, e sostenuto da una calibratissima modalità di utilizzo del sonoro (specie se confrontato all'uso troppo spesso invadente e gratuito che fa il cinema moderno del commento musicale), nel film è dominante un senso costante di tensione sotterranea, dalla quale è impossibile liberarsi. Non c'è catarsi né via di fuga e la violenza, in tutte le sue forme, manifesta o suggerita, è espressa in un modo così convincente e veritiero che aleggia costantemente per tutta la durata del film, come raramente si possa ricordare in altre analoghe e non analoghe opere. Questo in ragione di uno stile giunto ad una maturità e ad un equilibrio perfetto, ricercato ed essenziale allo stesso tempo, elegante nel suo folgorante bianco e nero (volutamente abbandonato solo nelle scene costruite dai filmini delle cerimonie), quanto distante da qualsiasi formalismo, evocabile solo da un giudizio incauto e superficiale .

In bilico tra spontaneo affresco culturale (a questo proposito Scorsese ha sempre negato di voler fornire delle tipicizzazioni sociologiche della società americana) e percezione particolarizzata della realtà rappresentata, il regista italo-americano ci dà in pasto un'opera d'arte di grandissimo valore, dove, in altre parole, forma e contenuto combaciano a meraviglia, culminando in alcune scene, se non intere sequenze, di inarrivabile bellezza; su tutte i siparietti ed i litigi familiari, preceduti da precisi movimenti di macchina a suggerimento degli eventi e a scelte di montaggio fortemente simboliche. A fare da cornice a questa quotidianità gretta e rigettata dall'inconciliato Jack la Motta, gli incontri di boxe assumono in modo inequivocabile il punto di vista del personaggio e il suo isolamento. Ripresi con dovizia di dettagli (sudore e sangue la fanno da padrone come mai prima in un cinema pugilistico), ad ogni incontro, Scorsese isola il suo pugile dalla realtà circostante e lo inserisce in uno spazio-tempo indefinito, a lottare con sé stesso, prima che con il suo avversario.

Le interpretazioni dei protagonisti sono di valore assoluto, in primis naturalmente quella di un Robert De Niro in stato di grazia. L'attore italo-americano riesce a cogliere tutte le sfaccettature di un personaggio in cerca di redenzione, ma che è incapace di affrancarsi da una cultura paranoica e maniacale che lo costringe a lottare per la sopravvivenza. Questa incapacità di farsi amare e accettare nemmeno con una cintura che lo definisce campione mondiale di boxe, è resa da De Niro con una verosimiglianza straordinaria. L'attore riesce ad esprimere il lato più oscuro e violento di La Motta, con una fisicità e un lessico disturbante (a questo proposito è doverosa la visione in originale) che vanno oltre il suo celebre e maniacale mimetismo fisico. Mimetismo senz'altro non trascurabile ed indicatore della professionalità con cui l'attore interpreta il suo ruolo, ma che sarebbe stato inutile se a questo non fosse corrisposta anche un'analoga immedesimazione psicologica. Se De Niro arriva ad essere realmente Jack la Motta, non da meno è l'interpretazione di Joe Pesci: più apparentemente istintiva, ma formidabile per realismo e presenza scenica, nonostante il suo minuto aspetto fisico. La sua interpretazione di un manager autodidatta, capace di rispettare e di farsi rispettare (la scena della furiosa rissa a causa di Vicky, moglie di La Motta, è qualcosa di difficilmente dimenticabile), fratello comprensivo, ma incapace anch'esso di tenere spesso a bada gli istinti più sessisti e violenti di una cultura basata sulla sistematica prevaricazione, è assolutamente indimenticabile. Come tutto il film, d'altronde.