Recensione Il primo uomo (2011)

La struttura del romanzo di Camus si fonde con i dialoghi creati ex novo da Amelio attingendo al proprio vissuto; ne scaturisce un movimento in cui una storia rispecchia fedelmente l'altra, senza però la pesantezza di una mimesi forzata.

La stella che c'è

Jacques Cormery è uno scrittore di grande successo. Nato in Algeria in una famiglia di coloni francesi, decide di tornare in patria chiamato a gran voce dai circoli studenteschi che gli chiedono di prendere posizione nella sanguinosa guerra di liberazione dalla Francia. Un conflitto che Cormery legge con gli occhi di un intellettuale convinto assertore dell'indipendenza algerina, e per questo osteggiato dai gruppi più reazionari, ma allo stesso tempo distante dalla violenza terroristica. Per Jacques, però, tornare a casa significa molto di più; vuol dire reincontrare la madre Catherine e l'amato zio Etienne, rivedere i posti che hanno segnato la sua povera infanzia, vessato da una nonna vigorosa e aiutato da un maestro illuminato e soprattutto riannodare il filo del rapporto con il padre, morto durante la Prima Guerra Mondiale, quando Jacques era ancora in fasce.


Jacques Cormery è l'alter ego di Albert Camus, narratore tra i più brillanti della sua generazione, premio Nobel nel 1957, morto in un incidente stradale nel 1960. Tra i rottami dell'auto fu ritrovato un manoscritto incompiuto, un romanzo autobiografico intitolato Il primo uomo, pazientemente ricostruito dalla figlia Catherine e infine pubblicato nel 1994, a oltre trent'anni dalla morte dello scrittore. Un testo emblematico, quello di Camus, che ha affascinato con forza Gianni Amelio, rispecchiatosi in pieno in quell'uomo che, come lui, non ha conosciuto il padre ed è stato cresciuto da due donne dal temperamento deciso in un contesto sociale difficile, per certi versi simile alla sua Calabria del secondo Dopoguerra, in cui la cultura era considerata fuori dalla portata dei poveri diavoli. Contattato dal produttore francese Bruno Pesery, Amelio ha accarezzato l'idea di poter trarre un film da questo materiale letterario unico, che in un colpo solo ha permesso al regista di inquadrare due storie, due vite, distanti, eppure vicine. L'arrivo in sala del film dopo sei anni di tribolazioni varie è quasi una liberazione per l'autore calabrese, che in questo progetto, una co-produzione italo-francese, ha creduto molto. Snobbato dai selezionatori della Mostra di Venezia, accolto trionfalmente all'ultimo Toronto International Film Festival, dove si è aggiudicato il premio della critica internazionale, Il primo uomo è un raro esempio di cinema non didascalico; un film 'imponente' dal punto di vista narrativo, per l'intensità della storia principale e la forza delle microstorie ad essa affiancate, eppure mai pedante.

Già il punto di partenza di questo viaggio sorprende per la sua originalità, con il protagonista, interpretato dall'intenso Jacques Gamblin, che tenta di stabilire un rapporto con il padre morto. E' chiaro che il 'ritrovamento' di cui parla Camus non sia quello fisico, ma si tratta di un recupero ben più profondo, una relazione da (ri)creare attraverso la memoria; la ricerca del padre, presente in un'unica toccante sequenza, quando prende in braccio il figlio appena nato, è solo una piccola, ma fondamentale parte di un'esplorazione più ampia, il percorso di crescita di un bambino speciale, il bravissimo Nino Jouglet, destinato a vedere la realtà con occhi diversi, della sua mamma (splendide le doppie interpretazioni di Maya Sansa e Catherine Sola), che lo ha lasciato libero di andare oltre, di un paese, quello in cui è venuto al mondo, che si è separato dalla madre(patria) con uno strappo ben più feroce. La struttura del romanzo di Camus, asciugato per l'occasione, si fonde così con i dialoghi creati ex novo da Amelio attingendo al proprio vissuto. Ne scaturisce un movimento in cui una storia rispecchia fedelmente l'altra, senza però la pesantezza di una mimesi forzata. Questo è il doppio binario su cui scorre la vicenda di un uomo, un artista, che sa leggere con modernità le contraddizioni della grande Storia, quella che rende necessaria la violenza, affinché un popolo si liberi dal giogo perverso del colonialismo e che allo stesso tempo pretende un reale senso di umanità dagli attori in campo, senza la quale si rischierebbe il totale annientamento. Amelio racconta tutto ciò con una vitalità sorprendente, regalandoci delle immagini luminose e calde, perché la memoria di Jacques/Albert non è un posto oscuro affollato di fantasmi, ma un luogo di affetti che non hanno bisogno di essere visti in maniera nitida per essere ritrovati, come si intuisce dai panorami sfocati che accolgono il protagonista nelle prime scene. Agganciandosi alla realtà storica e umana tratteggiata dal narratore francese, Gianni Amelio è riuscito a parlare di sé in maniera originale ed emozionante. In una parola, vera.

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4.0/5