Recensione Gardens of the Night (2008)

Damian Harris sembra privo dello spessore e dell'esperienza necessari a sostenere fino in fondo una pellicola che punta dichiaratamente a uno status di film di denuncia dal taglio impegnato e indipendente, ma che di fatto snocciola le sue tesi già acquisite in partenza generando principalmente tedio.

La notte non finisce mai

Sui bambini perduti è già stato detto di tutto e di più. Gardens of the night, diretto dal londinese Damian Harris, si propone come l'ennesima variazione sul tema senza, però, aggiungere niente di sostanzialmente nuovo. La piccola Leslie, una bella bambina bionda di otto anni che vive nella periferia residenziale di una cittadina californiana, viene rapita da due balordi legati a un'organizzazione di pedopornografi. I rapitori la trascinano da un nascondiglio all'altro tenendola segregata insieme al piccolo Donnie, venduto ai pedofili dalla madre tossicodipendente. Dieci anni dopo i due, ormai adolescenti, sono ancora insieme e vivono di espedienti compiendo piccoli furti e prostituendosi per procurarsi alcool e droga. L'incontro con un assistente sociale fa rinascere in Leslie la speranza di recuperare in parte l'infanzia rubata ricongiungendosi con i genitori che, malgrado tutto, non hanno mai smesso di cercarla.

La struttura narrativa di Gardens of the Night si articola in due metà assai diverse tra loro, quasi fossero due film in uno, ciascuno della durata di circa un'ora. Tutta la prima parte è dedicata al sequestro della piccola Leslie, sequestro che avviene quasi in tempo reale di fronte allo sguardo attonito dello spettatore. La dabbenaggine dei due rapitori improvvisati, incredibilmente disorganizzati e, al tempo stesso, implacabilmente privi di scrupoli nel consegnare la piccola nelle mani dei pedofili, in più di un'occasione richiama alla mente i grotteschi malviventi usciti dalla penna dei fratelli Coen, ma man mano che il tempo passa e la situazione non accenna a risolversi prende corpo l'agghiacciante ipotesi che il sequestro possa realmente non trovare soluzione. Ecco che il film vira decisamente in direzione dei toni cupi di Fargo, e la comunanza si fa ancor più evidente nel momento in cui si diviene definitivamente consapevoli dell'agghiacciante epilogo, crudele nella sua insensatezza. Un inaspettato - e immotivato - salto temporale ci proietta a distanza di dieci anni mostrandoci una Leslie, ormai diciassettenne, che non è mai tornata a casa, ma vive per la strada insieme a Donnie. Lo stile lucido e claustrofobico e l'uso della macchina a mano di impronta documentaristica che connotavano la prima parte del film, coinvolgente soprattutto grazie alla scelta della focalizzazione interna sullo sguardo di una bambina spaventata e scarsamente consapevole di ciò che le accade intorno, perdono improvvisamente di significato quando la vicenda inizia ad andare per le lunghe. La narrazione tesa e avvincente lascia il posto a uno pseudo-reportage sulla vita dei ragazzi di strada, il tutto già visto e rivisto più e più volte, ma ciò che è peggio è che da questo momento in poi ogni snodo narrativo dello script diventa prevedibile e scontato. Tutto quello che si presume accada ai giovani sbandati che vivono ai margini delle metropoli si verifica puntualmente e impietosamente, senza lasciare scampo alcuno allo spettatore.

Damian Harris non ha la sensibilità necessaria a comprendere che a una cesura narrativa importante, come quella che caratterizza la sua pellicola, deve necessariamente corrispondere un adeguamento dei modi della narrazione, cosa che qui, infatti, non accade. Ciò che di buono vi era nella prima parte del film, dopo il salto temporale, viene reiterato all'infinito. Il ritmo narrativo rallenta fino a rarefarsi in maniera estenuante, l'adesione al punto di vista della protagonista, uno dei pochi punti di forza della pellicola, rischia di diventare addirittura fastidioso una volta che il gioco è palesato. Leslie sperimenta tutto ciò che ci si aspetterebbe da una ragazza passata attraverso la sua esperienza, tutti i passaggi obbligati - droga, prostituzione, violenza, separazione dal compagno di sventura, fuga, ricerca di aiuto - vengono immancabilmente snocciolati uno dopo l'altro per poi culminare nel più retorico e prevedibile finale a tesi. Harris sembra privo dello spessore e dell'esperienza necessari a sostenere fino in fondo una pellicola che punta dichiaratamente a uno status di film di denuncia dal taglio impegnato e indipendente, ma che di fatto snocciola le sue tesi già acquisite in partenza generando principalmente tedio. Di certo non aiuta alla causa la presenza di John Malkovich nei panni di un assistente sociale che prova ad aiutare Leslie reintegrandola nella famiglia d'origine. Il fascino ambiguo e un po' maledetto dell'attore americano in questo contesto risulta particolarmente inappropriato, perché distoglie il pubblico dal fulcro centrale della vicenda e sottrae in parte credibilità a un film che zoppica faticosamente verso una conclusione retorica e priva di speranza.

Movieplayer.it

2.0/5