Recensione Harry Potter e i doni della morte - parte 1 (2010)

Un film visivamente molto ricco, elaborato, in misura ancor maggiore dei precedenti: dalle scenografie gotico-fantasy si passa a una predominanza di esterni, con una natura carica di misteri e pericoli ad enfatizzare il carattere del viaggio come impresa da compiere solo con le proprie forze.

La magia della maturità

"Tempi difficili ci attendono": sono queste le parole che, con un dettaglio sugli occhi di Bill Nighy, qui nei panni del ministro della magia Rufus Scrimgeour, aprono questo Harry Potter e i doni della morte - parte 1. Un'introduzione che rimanda a suggestioni tolkieniane, specie a chi abbia visto la versione cinematografica che Peter Jackson ha tratto dalla Trilogia dell'Anello (la frase altrettanto lapidaria "il mondo è cambiato", che apriva il primo film, riecheggia chiara nella nostra mente) ma che risponde anche a una semplice verità di cui non impiegheremo molto a renderci conto. I tempi difficili, d'altronde, ci erano stati già anticipati nel finale del precedente Harry Potter e il Principe Mezzosangue, con l'uccisione di Albus Silente e la decisione dei tre protagonisti di non tornare nella scuola di magia di Hogwarts, svolta che segna forse la tappa conclusiva della loro crescita, per quello che è l'ultimo episodio, il più adulto dell'intera saga. Un episodio che, con una scelta annunciata, arriva nelle nostre sale diviso in due parti (la seconda la vedremo a luglio) cercando di condensare in 5 ore totali un materiale letterario come sempre ricchissimo, denso di eventi e connessioni con gli altri episodi della saga, completamento di un universo e di una mitologia che l'autrice J.K. Rowling ha saputo abilmente creare nel corso degli anni. Era difficile pensare, dopo la conclusione del film precedente, a una pellicola dai toni simili a quelli che la serie cinematografica ci ha offerto finora: e considerato il clima di minaccia, quasi apocalittico, che si respira durante i primi 150 minuti di quest'ultimo atto della saga, le attese, almeno da questo punto di vista, non sono andate deluse.


Il film si apre con la decisione, dal forte valore simbolico, da parte di Harry ed Hermione di abbandonare le rispettive famiglie "babbane" (gli odiosi Dursley li scorgiamo probabilmente per l'ultima volta, ma quello che aspetta il giovane protagonista glieli farà quasi rimpiangere) per una riunione d'emergenza che, tenutasi a casa del terzo amico Ron, avrà proprio il giovane Potter al centro. Harry è ormai braccato, e nessun luogo per lui è più sicuro. Il mondo della magia sembra essere precipitato nel suo peculiare "lato oscuro", ed è proprio il giovane mago, emblema di coloro che resistono al potere che si sta instaurando, quello più in pericolo di tutti. E' in questa fondamentale svolta l'elemento che, narrativamente, differenzia quest'ultimo episodio da tutti gli altri: per la prima volta i tre protagonisti sono completamente soli, per la prima volta non hanno nessun adulto a coprirgli le spalle, e devono compiere una missione contando solo sulle proprie forze. La ricerca e la distruzione dei temibili Horcrux (i frammenti in cui Lord Voldemort ha rinchiuso pezzi della sua anima) sarà il motivo che porterà Harry, Ron ed Hermione da un luogo magico all'altro, da un paesino sperduto dimora di una vecchia strega scrittrice a una foresta ghiacciata in cima al mondo: in perenne fuga e alle prese con tensioni montanti anche tra loro. Si accennava in apertura ad ascendenze tolkieniane in quest'ultimo episodio della saga; al di là dell'ovvio debito del lavoro della Rowling nei confronti di quello del professore di Oxford, è difficile, nello specifico, non vedere nell'Horcrux trovato dai tre un potere malvagio analogo a quello dell'Anello: il manufatto rende cupo e ostile chi lo porta, ne tira fuori i lati peggiori, mette a repentaglio la stessa sopravvivenza del gruppo. Dei tre protagonisti, Ron Weasley è quello che sembra esserne influenzato maggiormente, e sorprende a questo proposito la capacità dell'interprete Rupert Grint di rendere l'inquietudine e la rabbia del suo personaggio in modo credibile e convincente.

Il film è visivamente molto ricco, elaborato, probabilmente in misura ancor maggiore dei precedenti. Dalle scenografie gotico-fantasy della scuola di Hogwarts si passa a una predominanza di esterni, ai paesaggi naturali come costanti accompagnatori del viaggio dei tre amici, con una natura carica di misteri e pericoli, ad enfatizzare il carattere del viaggio come impresa da compiere solo con le proprie forze. E' da segnalare anche una pregevole scena animata, visivamente molto bella, che traduce in immagini la leggenda che dà il titolo al film: scelta, quest'ultima, inusuale per la saga, ma qui decisamente azzeccata e funzionale. Il regista David Yates, già al timone di regia dei due precedenti episodi, non ha una cifra personale riconoscibile, non è un autore che abbia impresso la sua personale visione alla saga (un'operazione del genere era stata tentata solo da Alfonso Cuaròn nel terzo film): Yates si limita al contrario a tradurre diligentemente in immagini le pagine della Rowling, ma lo fa con sicurezza e ottimo senso del ritmo. La sequenza della fuga iniziale da casa Weasley, con i protagonisti trasformati in sosia di Harry Potter sui loro mezzi volanti, è tesa e di grande impatto, mentre il film presenta in generale un incedere incalzante, con una tensione sempre presente in cui c'è meno spazio per le parentesi più umoristiche e sdrammatizzanti. Anche la componente sentimentale, che nel film precedente risultava fastidiosamente preponderante, è qui complessivamente meno presente, e comunque rimane sempre funzionale al progredire della trama.
E' un peccato, alla luce di tutti questi buoni elementi, che la sceneggiatura di Steve Kloves risulti ancora una volta tutt'altro che perfetta: nel film troviamo di nuovo, anche se in misura minore rispetto all'episodio precedente, quella frammentarietà nella narrazione, quei passaggi poco chiari che sembrano pensati ad uso e consumo esclusivo di chi abbia letto il romanzo originale. Non è un caso che quello che resta, a parere di chi scrive, l'episodio migliore a livello di semplice scrittura cinematografica (Harry Potter e l'Ordine della Fenice) sia anche quello in cui Kloves è assente, e in cui troviamo una narrazione decisamente più compatta e armonica. Nonostante questo, il ritmo dello spettacolo coinvolge e a tratti appassiona, e i protagonisti stavolta ci mettono del loro: Daniel Radcliffe, alle prese con un registro più serio e adulto, offre quella che è decisamente la sua prova più convincente nell'intera saga, e tanto Emma Watson quanto il già citato Rupert Grint si rivelano ottime spalle, per un trio ormai compatto e affiatato. Dispiace il poco spazio riservato all'ottima Imelda Staunton, che già avevamo trovato nel quinto episodio nei panni della malefica professoressa Umbridge, e a un Alan Rickman che qui vediamo solo rapidamente nei minuti iniziali, presenza chiave della saga nell'ambiguo ruolo di Severus Piton. Almeno per quest'ultimo, ci sarà sicuramente spazio nella seconda parte, che concluderà definitivamente una saga durata, al cinema, dieci anni: tra alti e bassi artistici, ma con un esercito di fan sempre crescente, e più che mai fedele.

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3.0/5