La fuga, la recensione: avventure romane per guarire una famiglia

La recensione de La fuga, un piccolo film indipendente e ben intenzionato ma povero di idee e di emozioni.

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La fuga: un scena del film

Nell'accostarci alla nostra recensione di La fuga, vorremmo premiare le buone intenzioni degli autori, e in particolare della regista Sandra Vannucchi, che si è ispirata a un'immagine di sé stessa bambina, in fuga su un treno per Roma per allontanarsi da una situazione domestica insostenibile. Vorremmo fiancheggiare il distributore che porta in sale un film realizzato tre anni fa e che ha visitato tutti i maggiori festival cinematografici dedicati al pubblico giovane. Un film che affronta temi seri come l'integrazione delle comunità peripatetiche e l'impatto della depressione maggiore sulle famiglie.

Purtroppo si possono lodare le buone intenzioni fino a un certo punto; in questo caso sorprende davvero che una storia così personale e intima si sia tradotta, nelle mani di cineasti di caratura internazionale (Vannucchi e il suo produttore e co-sceneggiatore Michael King si sono conosciuti lavorando insieme a David Chase per I Soprano) in un film così modesto. Fondamentalmente troppo esile nell'impalcatura narrativa, La fuga scivola nella maniera più macroscopica e maldestra proprio nei momenti più delicati, dimostrando una certa immaturità della regista nella gestione degli attori proprio quando più si avvicina al cuore dell'opera; resta il fatto che il film racconta una storia diversa da quelle che normalmente si vedono sul grande schermo, ci fa visitare scenari inconsueti, e ha qualche scintilla di autenticità nei duetti tra le giovanissime protagoniste Lisa Ruth Andreozzi e Emina Amatovic.

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Silvia va in città

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La fuga: Lisa Ruth Andreozzi durante una scena del film

Torniamo alla trama de La fuga, cominciando proprio dalla nostra eroina undicenne, Silvia, che, stanca dell'inspiegabile e costante malessere della madre, afflitta da depressione, e del rapporto difficile con il padre, che non mantiene la promessa di portarla a trascorrere una giornata nella Capitale, prende un treno a Pistoia e a Roma ci va da sola. Giunta nella Città Eterna, però, la sua curiosità la porta a legarsi a una coetanea Rom, Emina, e a immergersi in una realtà incredibilmente diversa dalla sua, quella di un campo nomadi in cui nessuno è depresso ma sono tutti poveri. Nel frattempo, a casa, la mamma Giulia (Donatella Finocchiaro) e il babbo Pietro (Filippo Nigro), allarmati e poi disperati, si attivano per scovare la loro bambina e iniziano (forse) a mettere in discussione il proprio ruolo di genitori.

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Il male tenebroso e inspiegabile

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La fuga: Lisa Ruth Andreozzi in un scena del film

Se la vicenda che coinvolge la ragazzina ha risvolti implausibili ma nel complesso è tenuta insieme dall'intesa tra Andreozzi e Amatovic, che si scambiano forza e delicatezza per osmosi preadolescenziale, sono le sequenze con gli adulti a risultare un po' sconcertanti della loro debolezza. Finocchiaro e Nigro fanno quello che possono con il materiale che hanno a disposizione, ma i risultati sono così imbarazzanti e stranianti che non si riesce a smuovere un sussulto per questi genitori in difficoltà (come d'altronde non si teme per un secondo per la bambina; e qui è dove ci vengono in mente gli ultimi tantissimi recenti film indipendenti americani ed europei che ci hanno sfibrato nella tensione per il destino di uno o più minorenni).

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La fuga: Donatella Finocchiaro e Filippo Negro in un scena del film

Considerando il coraggio dell'approccio a un tema insidioso e senza dubbio meritevole di attenzione come quello della gestione dei disturbi depressivi nel nucleo familiare, è difficile non pensare all'opera di Vannucchi come a un'occasione mancata. Lo stesso può dirsi delle questioni legate alla vita nel campo nomadi, dalle traversie dei genitori di Emina che non trovano lavoro "perché sono zingari e nessuno li vuole" allo sfruttamento del lavoro dei ragazzi, c'è un limare di asprezze e un ottundere di spigoli che non è nemmeno superficialità, è proprio confusione e incapacità di andare oltre gli stereotipi. Insomma, abbiamo bisogno di storie diverse, di bambine, di integrazione, di malattie e di piccole umanissime vittorie, ma le vogliamo, possibilmente, raccontate meglio.

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2.0/5