Recensione La commedia del potere (2006)

Mascherato dietro l'etichetta del thriller psicologico, 'Comedy of Power' è un verboso e poco equilibrato atto di accusa alle infinite vie che il potere ha di rigenerarsi e di prosperare nella corruzione.

La Francia corrotta di Chabrol

Prima della presentazione di Comedy Of Power, ultimo film di Claude Chabrol, molti avrebbero scommesso che questo Berlino 2006 sarebbe stato il festival di rilancio dei grandi vecchi del cinema, non fosse altro che per la mediocrità complessiva dei titoli in competizione. Non se n'è fatto nulla invece. Se infatti Altman ha conquistato pubblico e critica con un film di sicuro valore (nonostante il sottoscritto qualche riserva ce l'abbia) il regista francese, superata la soglia dei cinquanta film, ha deluso molto, come d'altronde Sidney Lumet.

Una sorpresa in negativo, vista la freschezza e la lucidità che il regista transalpino continuava a mostrare nei suoi ultimi film (Grazie per la cioccolata in particolare) e che sembra aver smarrito in un film squilibrato ed un pò estenuante nello sviluppo narrativo. Della commedia il film ha solo il titolo e le incomprensibili risa che la platea berlinese gli ha tributato (d'altronde Chabrol di commedie non ne ha mai girate e non è questo il punto). Del potere ha l'analisi ossessiva e dispersiva dei suoi meccanismi, studiati attraverso il personaggio di un magistrato ossessionato dalla giustizia (interpretato dall'immancabile Isabelle Huppert) tanto da mettere in crisi il suo matrimonio.

Il film, mascherato dietro l'etichetta del thriller psicologico, è un verboso e poco equilibrato atto di accusa alle infinite vie che il potere ha di rigenerarsi e di prosperare nella corruzione. Niente di male se non fosse che Chabrol in questa occasione, seppur coerentemente e fedelmente interessato alla spietata analisi della borghesia, mostra chiare difficoltà di messa a fuoco dell'universo che indaga. Indeciso se concentrarsi sui percorsi psicologici dei personaggi o sulla sostanza politica del suo discorso, il settantacinquenne regista francese sposta troppo l'ago della bilancia nella direzione di un cinema politico-processuale dagli evidenti eccessi didascalici. Il risultato è (almeno in parte) la rinuncia al racconto introspettivo in profondità - di cui è maestro indiscusso - a favore della nevrosi accusatoria e dell'accumulo nozionistico. Il risultato è decisamente indigesto.