Recensione La diva Julia - Being Julia (2004)

Con questa commedia brillante, tratta da un romanzo di W. Somerset Maugham, l'ungherese Istvàn Szabo ribadisce la sua idea di un cinema principalmente di attori, che fa dell'insistenza sui volti e dell'uso diffuso dei primi piani la sua cifra stilistica principale.

La coscienza di Julia

Siamo a Londra nel 1938. Julia Lambert è un'attrice di teatro all'apice del suo successo: bellissima, ammirata, interpreta drammi e commedie che ottengono sempre grandi risultati di pubblico. Eppure, a quarant'anni, Julia è tutt'altro che una donna felice: il suo matrimonio, ormai più platonico che altro, la annoia, e suo marito, un impresario ex-attore, non sembra affatto rendersi conto della crisi; inoltre, Julia è consapevole di essere diventata una donna di mezza età, e che i "ruoli" da protagonista, in teatro come nella vita, ormai non le si addicono più. La donna sembra intravedere l'uscita dal tunnel quando conosce Tom, un giovane americano di bell'aspetto e dai modi cortesi: Julia si innamora immediatamente e perdutamente di quest'uomo, nonostante la grande differenza di età, ma dovrà presto rendersi conto di aver di fronte un individuo cinico che tenta in tutti i modi di sfruttare il suo denaro e la sua popolarità.

Diretto da Istvàn Szabo, uno dei più importanti nomi del cinema ungherese contemporaneo, e sceneggiato da Ronald Harwood da un romanzo di W. Somerset Maugham, questo La diva Julia - Being Julia è un ottimo esempio di commedia brillante che basa gran parte della sua forza sulle interpretazioni degli attori. E', in effetti, principalmente un cinema di attori, quello del regista ungherese, che per sua stessa ammissione fa dell'uso "significante" dei primi piani la sua specificità stilistica: qui questo espediente è presente in modo diffuso, andando a cogliere una vasta gamma di emozioni sul volto di Annette Bening, straordinaria protagonista giustamente insignita di un Golden Globe e candidata all'Oscar, dalla noia mascherata da giovialità all'irrazionale entusiasmo, dal dolore della rivelazione alla tranquillità della consapevolezza. Emozioni che trovano il loro complemento in quelle presenti sui volti del marito Michael (un altrettanto fondamentale Jeremy Irons) e del giovane Tom (il giustamente sgradevole Shaun Evans), entrambi altrettanto "attori", entrambi recitanti parti che regista e interpreti sono bravi a far cogliere allo spettatore nella loro mal dissimulata artificialità. Ed è in questo enorme, sfavillante, attraente ma per sua natura fallace palcoscenico che la storia del film si dipana, fin quando la protagonista non svelerà la sua artificialità proprio sopra quell'altro palcoscenico, più piccolo ma più vero, quello che da sempre rappresenta la sua ragione di vita.

L'ottimo lavoro compiuto da Szabo sugli attori, insieme alla regia ricca di ritmo e vigore, è completato da una sceneggiatura brillante, che coglie egregiamente il divenire di situazioni e personaggi, sottolineandone in modo ottimale l'evoluzione. E' da rimarcare inoltre la presenza costante del personaggio di Jimmy Langton (interpretato da un altrettanto convincente Michael Gambon), vecchio mentore di Julia rimasto con lei in forma di visione, che con il suo volto tranquillo e sicuro rappresenta l'anima più matura della protagonista, pronta a emergere nel finale: maestro di finzione scenica sul palco e di svelamento (e distruzione) della stessa nella realtà. L'accuratezza delle scenografie e della ricostruzione d'epoca fa il resto, completando l'apparato visivo-concettuale di una commedia che intrattiene con intelligenza, unendo al senso dello spettacolo una ricerca sempre presente sugli attori e sui meccanismi della narrazione per immagini.

Movieplayer.it

3.0/5