L'irrinunciabile vendetta da Oriente a Occidente

Quello della vendetta è un cinema che rincorre schematicamente due modelli estremamente diversi. Da una parte la vendetta come indagine su un sentimento ineluttabile di rabbia a una perdita inaudita, dall'altra la vendetta come reazione a un degrado sociale o alla paventata assenza di giustizia, presupposto per azioni di ricostruzione dell'identità personale, ma anche - demagogicamente - collettiva.

La vendetta al cinema. Difficile trovare connubio più proficuo in termini quantitativi. Non è quindi scopo di queste righe tracciare una storiografia attendibile di un argomento sterminato, quanto fornire un percorso (anche erratico e istintivo volendo) attraverso il quale cogliere dei mutamenti sostanziali di significato all'interno di un tema da sempre patrimonio del cinema, specie quello di genere. Parallelamente a quanto scritto su un tema vagamente assimilabile come il virus, il racconto cinematografico della vendetta, nonostante la caratterizzazione chiaramente umana e soggettiva dell'argomento, ha connotazioni sociali molto chiare, sia in termini di ricezione che di produzione. Ma soprattutto il tema della vendetta è l'ennesima dimostrazione di come Hollywood sia riuscita a inglobare progressivamente pratiche e stili una volta patrimonio della produzione indipendente, quando non di pura exploitation. Spesso smussandone le derive più ambigue e spigolose a uso e consumo di un pubblico a cui si risparmiano i turbamenti. Ma non sempre. Perché se è vero che la mediazione tarantiniana (implicita nella sua estetica ma esplicitata con Kill Bill) ha aiutato con la sua ossessione citazionista e fumettistica a stemperare gli accenti più amorali della vendetta e a renderli definitivamente affabili, già nel 1974 Il Giustiziere della notte aprì la stagione del cinema dei vigilantes, facendosi portatore di un'inquietudine sociale diffusa che divenne verbo reazionario nei pessimi sequel del decennio successivo. Ci pensò poi Seven col suo celeberrimo twist-in-the-end ad abbandonare la star Brad Pitt ai pruriti

vendicativi più irrinunciabili, rendendo un atto di giustizia personale mai tanto empatico con il pubblico. Se dieci anni dopo Kiefer Sutherland nei panni di Jack Bauer non si risparmierà mai, nella nota serie 24, vendette private a sangue freddo, il pubblico è ormai socializzato allo strappo e così finiamo per guardare anche con eccessiva ilarità le peripezie da super uomo di Liam Neeson in Io vi troverò. In questo contesto, la stagione del poliziesco all'italiana - partendo da Don Siegel e dal polar francese e strizzando l'occhio allo straordinario Carter (che in Inghilterra nel 1971 già raccontava la società con un cinismo e una cupezza che hanno fatto storia) - ha tracciato una grande strada, resa immortale proprio perché capace di osare dove un cinema più attento a un pubblico trasversale, come quello mainstream, non poteva osare, cedendo strada anche in patria all'exploitation e ai suoi sottogeneri più sanguigni come i biker movie o il rape and revenge, in cui è ancora una volta il cinema italiano con L'ultimo treno della notte di Aldo Lado, capace di portare oltre la soglia del sopportabile il discorso aperto da La fontana della vergine di Ingmar Bergman, molto più che nella versione americana de L'ultima casa a sinistra. Film capaci con qualsiasi arma di parlare a un nuovo pubblico, stanco del ruolo classico di intrattenimento catartico del cinema, ansiosi di vedere sullo schermo la realtà nuda e cruda, ma macchiata di iperboli stilistiche altamente spettacolari.

Ma quello della vendetta è un cinema che rincorre due modelli estremamente diversi. Da una parte la vendetta come indagine su un sentimento ineluttabile di rabbia a una perdita inaudita, come ne ha tracciato le coordinate filosofiche Gaspar Noé con Irréversible, e i picchi artisticamente più elevati di Park Chan-wooknella sua straordinaria trilogia. Il regista coreano racconta, con indomabile furia visionaria, tre storie di vendetta, mostrandone l'inutilità e l'irragionevolezza, ma anche la comprensione (è forse importante ricordare come in inglese il termine sympathy rifletta molto più l'idea della comprensione che quello italiano di simpatia) in un discorso che si fa sempre più pessimista, con la chiusura nera di Lady Vendetta, dove il linciaggio familiare al violentatore pedofilo lascia poco adito a dubbi. Ma ovviamente, di tali sentimenti sono alimentati centinaia di titoli che spesso ricorrono al semplice espediente narrativo per un cinema profondamente umano, intento a interrogarsi sulla perdita e il vuoto causato, piuttosto che sul confine tra vita sociale e individualismo giustizialista. Oppure sulla dissoluzione di un codice d'onore criminale, come in Heat - La sfida, dove di fatto Neil McCauley (Robert De Niro) si gioca la libertà per incapacità a governare il suo istinto vendicativo. E' d'altronde il codice del cinema noir, quell'immobilità di fronte al destino resa grandiosa dal cinema francese di Melville e dalla sua influenza su quello hongkonghese degli irripetibili anni '80, della cui eco oggi è rimasto quasi solo il cinema di Johnny To, che dopo decine di film e un pugno di capolavori, chiude il cerchio proprio con un omaggio al polar di Melville, con il suo Vendicami, appena uscito in Italia. Ma dell'universo morale di quel cinema è rimasta solo una cornice formale che To gioca a riformulare con una pedanteria calligrafica che sfocia abbondantemente nella maniera. To rifà se stesso che rifà Melville e chi ha amato profondamente il suo cinema è difficile che investa emotivamente in questa sua ultima opera.

L'altro modello è quello della vendetta come reazione a un degrado sociale o alla paventata assenza di giustizia, presupposto per azioni di ricostruzione dell'identità personale, ma anche - demagogicamente - collettiva. Un modello che ha dato a lungo adito a una lettura politica destrorsa, a volte abusata, ma non sempre scorretta, per quanto la molla narrativa di tanto cinema ha sempre accarezzato più una tipologia di qualunquismo da strada ben poco raffinato, che un modello di appartenenza politica. E' interessante rileggersi oggi una recensione del New York Times a firma di Vincent Camby che scrisse in questi termini de Il Giustiziere della notte: "Un film senza cervello che scalderà i cuori degli estremisti di destra e di quelli che non pensano alla politica ma amano vedere gente fatta fuori senza distinzione di colore o religione. Un film disdicevole che solleva domande complesse con il solo scopo di fornire risposte bigotte, frivole ed eccessivamente semplici". Chissà allora cosa pensò Camby dei vari sequel e epigoni del film, quelli sì imbevuti di uno spirito smaccatamente e compiaciutamente forcaiolo e fascista. L'analisi di Camby ha ragione di esistere, perché ogni opera è il risultato di una prospettiva politica, ma è semplicistica e finisce per negarci qualcosa, specie nella lettura del modello originale, portatore sin dall'emblematico titolo originale (Death Wish) da una parte di una tensione nichilista, dall'altra di un'ambiguità che sfocia in un senso nostalgico non lontano da molto cinema di John Ford (non a caso anche molto western classico è stato bollato schematicamente come di destra). L'opera comunque vive di spinte centrifughe che ne garantiscono un respiro inequivocabile che gli ha permesso di radicarsi nell'immaginario collettivo, un po' come fu per Rambo nel 1982. Anche qui un film dalla morale ambigua, tacciata di becero giustizialismo, che in realtà racconta (nuovamente ci viene in soccorso il titolo originale First Blood) un nervo scoperto nella coscienza americana. Quella drammatica zona d'ombra tra il vivere civile, garantito dal progresso, e il ritorno a un modello preindustriale che alimenta anche tutto il cinema di Sam Peckinpah e che l'America riesce ad evocare in un solo paesaggio, in una strada, o in un cartello.

Dell'esplosione contemporanea dei film sulla vendetta si sono avvantaggiati in particolar modo generi come il western e i cine-comics. Il primo negli anni si è trasformato nel peggiore dei casi in una cartolina nostalgica, nel migliore in una ricerca autoriale di grande interesse, capace di trarre il massimo delle possibilità narrative del contemporaneo. Motivo per cui Le tre sepolture, Caccia spietata, o gli australiani The Proposition e Red Hill, mettono al centro, nella loro evidente diversità, l'idea di vendetta come catarsi e riscatto, oltre che di giustizia. Il genere si adatta perfettamente facendo da cornice ricca di riferimenti a un classicismo che ha sempre sposato il tema della caccia all'uomo, nel cui nucleo molto spesso soggiace un motivo di rivalsa. Nel cinema di derivazione comics, da una parte le saghe più interplanetarie hanno sposato un'immagine sempre più ambigua, come per il personaggio di Wolverine e soprattutto per Il cavaliere oscuro, dove il dilemma morale della vendetta è uno dei temi portanti, ma soprattutto sono stati girati due adattamenti come The Punisher e V per Vendetta che affrontano il tema sotto angolature diverse. Il primo naviga in acque decisamente torbide e ambigue riallacciandosi in modo maldestro all'evocata tradizione del vigilante e facendo teoricamente da apripista extra-comics a film come Death Sentence e allo scomodo Il buio nell'anima, in cui Neil Jordan riesce a rendere problematico un plot spicciolo, almeno sulla carta. Il secondo tratto dalla matita intellettuale di Alan Moore ribalta le coordinate del genere e fa provocatoriamente della vendetta un affilato e cervellotico strumento di liberazione da un regime di dittatura poliziesca, instauratosi in Inghilterra per prevenire una guerra nucleare. Una vendetta di "sinistra" che ha tra i pochi riferimenti ideali Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli, che nel 1977 si permetteva un film di un'inaudita violenza sotterranea e dipingeva il contesto borghese benpensante con feroce sdegno politico.
Anche la stagione in corso è un continuo riferimento al tema. Oltre il già citato Vendicami, sono usciti l'interessante Fuori controllo, dove la ricerca della verità e della giustizia del detective Thomas Craven (Mel Gibson) si scontrano con una realtà ben più stratificata fatta di lobby e interessi. In programma per l'estate anche Giustizia privata, dove ancora una volta un ex ingegnere meccanico della CIA vede uccidere da due malviventi la moglie e la figlia e dopo aver perso la fiducia nel sistema giudiziario nel quale credeva, decide di vendicarsi di persona. Difficile invece che passi dalle nostre sale Harry Brown, dove Michael Caine rievoca il suo Carter in un anziano militare in pensione, costretto a trasformarsi in vigilante dopo essersi trasferito in un quartiere dominato dalla criminalità. Tempi duri per il cinema dei buoni sentimenti.