Recensione Invictus (2009)

Eastwood sbarca nel Sudafrica di Mandela e unisce la sua anima biografica a quella civile, passando per quella sportiva, portando in dote il suo cinema prezioso in termini di selezione e semplicità. Mancano però un po' il calore e la curiosità che anima il suo miglior cinema.

L'invicibile potere dello sport

Invictus ovvero invincibile. Lo si potrebbe pensare di Clint Eastwood visto il ritmo con cui sforna alla sua età grandi opere, nonostante questo suo ultimo film non sia del livello sbalorditivo di Changeling e Gran Torino. Eppure, nonostante un certo diffuso e spesso preventivo scetticismo per l'abbinamento Eastwood-Mandela, Invictus è tutt'altro che un film da liquidare sbrigativamente come una sua regia minore. Voluto fortemente da Morgan Freeman (presente anche come produttore esecutivo del film), tratto da Ama il tuo nemico di John Carlin, il film racconta il processo di pacificazione del Sudafrica con l'avvento di Nelson Mandela, filtrando il dramma della separazione attraverso il celeberrimo mondiale di rugby del 1995. Compresa l'importanza simbolica dello sport nazionale, Mandela infatti frenò i propositi di disfacimento degli Springbroks (squadra frutto e simbolo della politica dell'apartheid) e fece tutto il possibile, insieme al capitano Francois Pienaar (Matt Damon), per portare il Sudafrica a una delle vittorie meno pronosticabili della storia dello sport.

Eastwood sbarca in Sudafrica e unisce la sua anima biografica a quella civile, passando per quella sportiva, ma differentemente da Bird nel primo caso, Changeling o Million Dollar Baby (per citare tre opere a loro modo affini e in cui il calore e la potenza di sguardo del regista americano segnano profondamente il narrato) dirige un film dove pare sentire meno fortemente la storia. E' la curiosità, quel suo sapere porsi in discussione come regista e come uomo, le domande che animano i suoi personaggi a mancare un pò in Invictus, soprattutto dal momento in cui il film si addentra sempre più profondamente nell'epica (o di quello che ne rimane nell'antispettacolare variante eastwoodiana) sportiva, distanziandosi dal racconto civile del Sudafrica di Mandela. Non che si chiedesse a Eastwood un'opera pomposamente progressista e pedagogica. Fortunatamente il suo classicismo e la sua asciuttezza portano ancora il suo cinema verso un equilibrio e una rarefazione dei toni tale da rendere poco enfatico anche un tema non solo a rischio di retorica ma anche di accenti iperbolici tipici del cinema sportivo. Ma se la riflessione sui valori antropologici e simbolici dello sport è lucida e riuscita, il contesto storico e la personalità di Mandela rimangono a volte eccessivamente dietro lo sfondo e ci si finisce per chiedere quale sia il vero focus riflessivo del film.
Cosa interessa allora a Eastwood, al di là di una grande storia cinematografica dove un Paese in ricostruzione getta il primo mattone dell'unità attraverso un sogno sportivo contro ogni pronostico e aspettativa? Il Mandela di Invictus, interpretato da un Morgan Freeman in puro stato di grazia, rifugge alla sua inevitabile invadenza carismatica; è un uomo semplice dalla volontà infaticabile che impara ad amare uno sport di cui all'inizio pare non conoscere bene nemmeno le regole. Vive nel suo rapporto crescente con il rugby, prima come strumento della sua volontà politica, poi come metafora del potere unificante dello sport, infine come elemento di approfondimento della sua psicologia. Sta tutta qui la forza del cinema del regista americano, capace di raccontare dal nulla, attraverso pochi dettagli, la cui pregnanza è frutto di una selezione sempre più ricercata e riflessiva e troppo spesso è scambiata per semplicismo, se non addirittura didascalismo. A Eastwood non interessa addentrarsi in elementi biografici drammaturgicamente saturi, costruire un'ampolloso biopic bigger than life. Il suo tratteggio è al solito invisibile e prezioso, fatto di piccole cose, come il fuori campo che sussegue al malore da eccessiva stanchezza di Mandela, o la veloce visita alla sua cella o come quando cammina la mattina alle prime luci del sole e reagisce male a un'innocente affermazione di una sua guardia del corpo che lo riporta alle difficoltà della sua vita familiare. Per questo probabilmente il film non è sempre molto a suo agio con i muscoli e il sudore del rugby e con tutte le convezioni stilistiche del genere. Ma Invictus è l'ulteriore canto del cigno di un cinema che non esiste più, che accetta il sacrificio dello spettacolo, modernamente inteso, ma che ha ancora moltissimo da dire in termini di morale e generosità.