Recensione Sciuscià (1946)

Attraverso Sciuscià assistiamo ad un percorso di formazione, alla documentazione di una classe sociale formata da bambini lavoratori, troppo giovani e inesperti di fronte alle responsabilità di un'Italia proiettata verso la liberazione e verso un futuro migliore.

L'infanzia rubata

Sciuscià viene concepito in un momento molto particolare per l'Italia, sia da un punto di vista storico che cinematografico. E' infatti l'anno 1946, il referendum popolare di giugno porta alla proclamazione della Repubblica e, alle elezioni per l'assemblea Costituente, risultano vincitori la Democrazia Cristiana e i partiti di sinistra. La tendenza cinematografica più importante dell'epoca è il neorealismo, movimento che s'impone come una forza di rinnovamento sociale e culturale. Ecco quindi che dai film traspare un nuovo realismo, i cineasti si spostano nelle strade e nelle campagne, con la possibilità di girare in esterni. La grande novità consiste soprattutto nel tipo di storia che ora viene raccontata: ci si ispira a eventi reali, ai problemi sociali, dando ai film una dimensione morale e conferendo un senso universale ai problemi individuali dei personaggi. Ciò che più di tutto caratterizza questo movimento è l'impiego di attori non professionisti (anche se è giusto ricordare che in più di una pellicola compaiono divi affermati).
Sciuscià, quindi, rispecchia tutte le caratteristiche tipiche del movimento. Diretto da Vittorio De Sica, raccoglie una serie di importantissimi sceneggiatori: Zavattini, Amidi, Franci, Viola, già incontrati in molti film di stampo neorealista, coloro cioè che vogliono un cinema in grado di presentare il dramma nascosto negli eventi quotidiani.

La trama del film in questione ci mostra due ragazzini, Giuseppe e Pasquale, immagine autentica dei piccoli dell'Italia del dopoguerra. La strada è la loro dimora: qui essi vivono, lavorano, intessendo rapporti con gli americani ai quali, come suggerisce il titolo, lucidano le scarpe ("sciuscià" deriva dal detto inglese shoe shine, cioè lustrascarpe). Non solo, è qui che fanno i loro affari, contano i soldi e valutano, come fossero veri e propri uomini, attenti alle possibili truffe. Quelli che ci vengono presentati, perciò, sono ragazzini senza infanzia, due giovani che già si sanno destreggiare perfettamente in una Napoli sconvolta dalla guerra.
L'unico simbolo che effettivamente avvicina Giuseppe e Pasquale al concetto di giovinezza e spensieratezza è il cavallo, il loro oggetto del desiderio. Essi, infatti, vorrebbero possedere un puledro bianco e, grazie ai soldi guadagnati attraverso un lavoro poco onesto, riescono a coronare il loro sogno. Il regista ce li mostra felici mentre cavalcano senza sella, fieri del loro operato.
A causa, però, della denuncia mossa contro di essi per il "lavoretto" di estorsione al quale, ignari, si sono prestati, i due ragazzini vengono arrestati e mandati al riformatorio. Si apre a questo punto un'altra fase, un capitolo nel quale veniamo a conoscenza dei rapporti tra i protagonisti e i loro compagni. Scopriamo le varie relazioni tra gli adulti e i piccoli, tra i capi e i prigionieri, tra coloro che nelle singole celle comandano e chi invece si sottomette. Giuseppe e Pasquale vengono separati fisicamente sin dall'entrata in carcere e, per una serie di vicende, la loro amicizia si trasformerà in rivalità e antipatia.

E' all'interno delle prigioni che realizziamo la variegata realtà presente in una società poco attenta alla crescita dei più piccoli: ci sono i ladruncoli abbandonati a loro stessi; i più grandi, i "quasi- uomini" scontrosi e capaci di comandare su tutti. In più notiamo nello specifico alcune figure maggiormente stereotipate, come il ragazzo istruito e intelligente, il piccolo gracile e malato, il giovane buono e interessato al bene comune. In un momento in cui l'Italia è in balia della guerra sembra che nessuno sia effettivamente interessato a queste vite, a coloro che un domani potenzialmente formerebbero la nuova classe lavorativa. Questa è una denuncia, è la dimostrazione di come siano sempre i più piccoli ad essere accantonati in un momento di emergenza sociale.

Per contestualizzare maggiormente la vicenda, ci viene mostrata la messa in onda, attraverso mezzi piuttosto modesti, di un cinegiornale, strumento di comunione per i giovani detenuti e i loro carcerieri. Sentiamo infatti parlare della battaglia condotta nel Pacifico contro i giapponesi e notiamo lo stupore, la gioia che uno strumento rudimentale come il cinematografo di allora scatena nei bambini. Sfruttando la situazione, alcuni ragazzi riescono a scappare dall'edificio ma sarà la stessa fuga a risultare maggiormente drammatica per i nostri protagonisti che, in un momento di lite, trasformeranno il finale della vicenda in tragedia. A causa di uno spintone da parte di Pasquale, infatti, Giuseppe cadrà da un ponte e, battendo la testa, morirà. E' questo il momento della disperazione, per un bambino che vede morire a causa sua il migliore amico. Tutto ciò accade nei pressi della stalla in cui è tenuto il loro cavallo. Sarà proprio esso che assisterà alla scena e che, nell'ultima sequenza, abbandonerà il luogo della disgrazia, quasi con sdegno. Questo gesto sottolinea ancora di più la divisione tra i due amici, l'abbandono da parte di ciò che condividono e che entrambi amano, ma ancora più abilmente, questa scelta, segna la definitiva cesura tra l'infanzia e l'età adulta.

Attraverso Sciuscià assistiamo ad un percorso di formazione, alla documentazione di una classe sociale formata da bambini lavoratori, troppo giovani e inesperti di fronte alle responsabilità di un'Italia proiettata verso la liberazione e verso un futuro migliore. Vediamo giovani innocenti che vengono contaminati dalla corruzione degli adulti, ma che conservano in loro ancora uno spirito totalmente fanciullesco che li spinge a mostrare la paura propria dei piccoli e a credere nei sogni.
Il film è perciò un perfetto documento della realtà degli anni dell'immediato dopoguerra, è la testimonianza di una drammaticità, realmente presente nell'Italia di allora.