Recensione Inland Empire (2006)

Invece di darsi in un percorso lineare, Lynch procede per libera associazione di idee, immagini e suoni, riconducibili in parte alla logica primaria e ai processi di condensazione e spostamento tipici del sogno.

L'impero dell'incubo

Un viaggio nell'oscurità dell'inconscio contorto e perverso del regista più visionario di tutti i tempi. Inland Empire non è un semplice film, ma una summa, una sintesi suprema dell'immaginario di David Lynch. Un film estremo, senza mezze misure, a cominciare dalla durata: tre ore che possono passare in un istante o durare un'eternità a seconda del grado di sintonia con il concetto di cinema inteso nel senso più tipicamente lynchiano. La dissoluzione del cinema tradizionale parte proprio dalla trama, una trama inesistente, inconsistente, o al contrario formata da centinaia di trame diverse che si intersecano costantemente, tante e tali che le parole non bastano per descriverle. Invece di darsi in un percorso lineare, Inland Empire procede per libera associazione di idee, immagini e suoni, riconducibili in parte alla logica primaria e ai processi di condensazione e spostamento tipici del sogno, o forse Lynch si fa beffe pure di Freud negando ogni possibile senso. Non esiste una verità univoca nei mondi di Inland Empire, ogni spettatore è chiamato a interpretare come più gli aggrada ciò che vedrà sullo schermo o meglio, ciò che percepirà.

Se cerchiamo di stabilire dei punti fermi al di là dell'immenso magma immaginifico troviamo al centro della narrazione una figura femminile interpretata da Laura Dern, musa di Lynch dai tempi di Velluto Blu e Cuore Selvaggio, nei panni di un'attrice alle prese con una misteriosa pellicola da girare. Costretta a confrontarsi col regista, con il coprotagonista maschile del film e con un marito inaffidabile, la donna viene catapultata in un turbine di situazioni diverse impossibili da ricondurre a una qualsiasi logica spazio-temporale. La presenza della Dern si staglia come immagine femminile privilegiata del cinema lynchiano, portandosi dietro il bagaglio di ingenuo candore di Sandy, alla scoperta dell'orrore che cova sotto l'apparente perbenismo borghese, e la purezza conturbante di Lula, innamorata osteggiata, e come le bionde icone hitchcockiane, anche in questo caso si crea un circuito del desiderio, desiderio di possesso, pulsione scopica tra il regista/autore e l'oggetto del desiderio. Le figure maschili che costellano la pellicola (il regista Jeremy Irons e l'attore Justin Theroux) sono solo ombre che si riflettono l'una nell'altra, alter ego/simulacri dell'autore sadico e voyeur che, incarnandosi nell'occhio della macchina da presa, segue strenuamente il suo oggetto del desiderio braccandolo da vicino e cercando di coglierne ogni minima sensazione in un crescendo parossisitico e claustrofobico che culmina nel climax finale. Paradigmatica è in questo senso la sequenza in cui la Dern, completamente sola, si aggira su un set deserto simile a una città fantasma tallonata dalla cinepresa che ne cattura la crescente inquietudine fino a sfociare in terrore puro.

Lynch gioca a confondere le acque, cancellando il sottile confine che separa realtà e finzione, vita vera e cinema, film e film nel film e confeziona una straordinaria opera metacinematografica, anzi, addirittura supera sé stesso valicando la dimensione postmoderna, in un caos di input, riferimenti, citazioni e autocitazioni che solo a tratti possono essere identificati con certezza. Gli interni, allo stesso tempo maestosi e claustrofobici, richiamano alla mente le atmosfere surreali della stanza rossa de I segreti di Twin Peaks, la mescolanza di piani tra realtà e finzione rievoca la trama di Mulholland Drive, gli inserti musicali apparentemente slegati dal contesto Cuore selvaggio e ancora Twin Peaks. Ma la pellicola di Lynch compie un'ulteriore passo in avanti nell'evoluzione cinematografica contemporanea attraverso la teorizzazione del digitale di cui ormai si fa ampio uso, ma che per una pellicola come Inland Empire risulta addirittura necessario. Il buio uterino che immerge lo spettatore nella visione onirica non è quello compatto e patinato della pellicola, ma quel grigio sporco, sgranato, cupo e polveroso che riproduce alla perfezione la consistenza opaca del sogno. La telecamera digitale, leggera e mobilissima, segue i personaggi con ossessiva maniacalità mostrandone volti e corpi distorti da angolature atipiche, permettendo la penetrazione dell'occhio negli spazi intimi inviolabili per le pesanti cineprese del passato.

Un nuovo concetto di cinema totale che si innesta sull'altrettanto disturbante visione che Lynch ha di Los Angeles, culla della "fabbrica dei sogni", e delle esistenze che si consumano al suo interno. Non è un caso che il percorso tematico più recente parte dalla tetra villa del noir Strade Perdute passando attraverso i percorsi suggestivi della Mulhollan Drive, vecchia strada che si snoda attraverso le colline di Los Angeles, per approdare, infine, al quartiere residenziale dal suggestivo nome di Inland Empire. Una topografia lynchiana che conduce lo spettatore più temerario e desideroso di seguire l'intricato percorso fino all'anticamera dell'inferno della mente del regista o, forse, della nostra.

Movieplayer.it

5.0/5