Recensione Elephant (2003)

Pellicola forte e coraggiosa, Elephant di Gus Van Sant, premiata un po' a sorpresa con la palma d'oro al 56° Festival di Cannes. Un film che di certo non lascia indifferenti.

L'elefante non è invisibile, ma armato

A testimonianza di quanto l'ottimo documentario di Michael Moore, Bowling a Columbine, sia entrato di forza nell'immaginario collettivo mondiale, anche Gus Van Sant si confronta, adottando uno stile per certi versi analogo, con il tema scottante delle armi da fuoco negli Stati Uniti, in particolari delle stragi scolastiche; "un problema ignorabile come un elefante in un salotto". E' questo il detto che ispira il titolo del film, Elephant, che a sua volta si rifà all'omonimo documentario di Alan Clarke, del 1989.

Siamo in uno dei tanti licei di periferia americani (precisamente a Portland, nell'Oregon). E' un tranquillo giorno di scuola: si seguono le lezioni, si spettegola, si gioca a football, c'è chi va in laboratorio di fotografia, chi cammina nel parco, chi lavora in biblioteca e chi amoreggia. Ognuno vive la scuola a modo suo, ognuno ne trae ciò che è più conforme a sé stesso e alle sue aspettative.

Il regista segue i suoi reali personaggi (tutti attori emergenti), con lunghissimi piani sequenza e lente panoramiche con la steadycam; descrive con toni naturalistici atteggiamenti e luoghi, si fa catturare dalla loro soggettività. Tutto è parte di un quadro dove i corridoi, le aule, i cortili, gli spogliatoi e la mensa sono la cornice. A sottolineare il carattere documentaristico della regia (nonostante le sperimentazioni sulla temporalità ci riportino dalle parti della fiction), ci sono l'illuminazione naturale, lo scarso contrappunto musicale, l'elevato tasso di improvvisazione dei dialoghi e la scelta del formato 1:33 a discapito dell'affermatissimo 1:85.

E' in questo contesto di empatica descrittività, che l'esplosione della violenza, innescata da due studenti come tanti, solo un po' più soli e incompresi, travolge lo spettatore come un treno; sconvolge per la glacialità della sua rappresentazione, fredda come i videogiochi a cui si ispira. Una violenza parossistica, inaspettata, anche se si è già a conoscenza della trama; che inorridisce e fa riflettere; che non permette di essere rifiutata. Questa rappresentazione della violenza, quasi in antitesi col calore registico con cui è affrontata tutta la parte precedente del film, ha fatto molto discutere, ma di certo assolve il suo scopo, che è quello di sollevare un problema non ignorabile. Van Sants, sceglie infatti, semplicemente, di mettere in scena l'atmosfera di una tipica scuola americana, non propone soluzioni, né spiegazioni: "Non appena spieghi qualcosa ci sono altre cinque possibili risposte che vengono negate da quella spiegazione, senza considerare che alcune cose semplicemente non ce l'hanno una spiegazione", sono le sue parole in proposito. Il suo film ha (secondo il produttore Danny Wolf): "l'audacità di trattare un evento senza mostrarne cause ed effetti, riferendosi ad un tema che la gente invece vuole vedere in termini inequivocabili". E noi senz'altro concordiamo.