Recensione Giungla d'asfalto (1950)

Sotto l'asfalto di una città deserta pulsa un cuore malato che prepara l'assalto decisivo, grazie al quale i sogni impossibili diventeranno una mortale realtà. Un altro classico noir firmato John Huston.

L'anima nera della città

Dopo aver creato la propaggine americana del noir, John Huston prosegue con Giungla d'asfalto il percorso intrapreso con il seminale Il mistero del falco, ma con un'urgenza espressiva, se vogliamo, più spietata. Il punto di partenza è l'eponima hard-boiled novel di W. R. Burnett (da un altro suo racconto sarà tratta la sceneggiatura di un altro classico imprescindibile come Piccolo Cesare). Il tema portante è quello del colpo grosso alla gioielleria che qui, però, diventa solo il pretesto per far riemergere con prepotenza un mondo fatto di personalità dall'animo corrotto o corruttibile, che della società di cui fanno parte rappresentano però le fondamenta (non a caso il titolo secondario del film è The city under the city).

In Giungla d'asfalto, infatti, non abbiamo a che fare con quattro malavitosi che abbracciano la strada del crimine per livellare le differenze sociali o per riscattare le proprie vite. Nel film di Huston abbiamo quattro veri professionisti del crimine che hanno in esso l'unica ragione di vita. La metafora dei problemi che si annidano nelle pieghe degli States del Dopoguerra, è scoperta, ma è nascosta molto bene grazie ad un bianco e nero polveroso e ad un crescendo di emozioni che, con il finale, sintetizza magnificamente il fallimento di tutti i sogni possibili (chiara l'allusione a Il tesoro della Sierra Madre). Ma ancor prima del crollo delle illusioni, in Giungla d'asfalto c'è una città che marcisce lentamente insieme ai suoi posti. Zone o "non luoghi" in cui sarebbero in grado di aggredirti per una camicia pulita, ma in cui non c'è anima viva in giro. In apertura di film c'è un auto della polizia che si aggira in una città deserta (quasi un'appendice post-industriale della Brema di Nosferatu) forse alla ricerca degli ultimi brandelli di un'umanità infetta e segregata chissà dove. Huston, a differenza de Il mistero del falco, porta spesso la macchina da presa all'esterno, ma la differenza non si nota: il senso di desolazione è massimo e le cose più importanti (salvo qualche scena d'azione e la fuga conclusiva) avvengono in interni. Gli unici spazi all'aria aperta che contano sono anche quelli che non si vedranno mai (il Messico) o che Dix (Sterling Hayden) riuscirà a vedere solo per un breve istante (la fattoria nativa nel Kentucky). La dimensione simbolica dell'evasione è così dissimulata, come avverrà molti anni dopo con l'isola tropicale di Scarface o con le visioni mortali di Carlito's way. Anche se questa volta le immagini non sono imprigionate in un cartellone pubblicitario o nei gelidi bagliori della metropolitana, ma in una gabbia arrugginita dove asfalto e cemento hanno condannato definitivamente i comuni mortali all'estinzione.

Quattro nominations all'Oscar (Miglior Attore non Protagonista per Sam Jaffe, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura e Miglior Film in bianco e nero) senza vederne neanche uno, Giungla d'asfalto sarà comunque motivo d'ispirazione per molti film successivi (tra i quali Rapina a mano armata di Stanley Kubrick, che assegnerò proprio a Sterling Hayden il ruolo di protagonista). La pellicola di Huston si avvale, inoltre, della presenza dell'allora sconosciuta Marilyn Monroe, che in molte locandine d'epoca fa bella mostra di sé, nonostante il suo ruolo di comparsa. La protagonista principale, invece, è l'altrettanto affascinante Jean Hagen, pretesto per il misogino Huston per una scena emblematica: lei piange e le lacrime sciolgono il trucco e fanno cadere le ciglia finte. Mai immagine del disfacimento di un mondo, e forse di un'idea, è stata più corrosiva.