Recensione Dalla vita in poi (2010)

Con 'Dalla vita in poi' Cristiana Capotondi ci accompagna in una ballata romantica in cui l'amore e i buoni sentimenti riescono a limare le sbarre della malattia e del carcere mentre una carrellata di personaggi grotteschi muove al sorriso.

Katia e gli altri

Katia è giovane, bella, un po' sfacciata e solare. La sedia a rotelle su cui è costretta dalla malattia non ha arrestato la sua vitalità e le sue energie quotidiane, anzi la ragazza, romantica ma anche determinata, non manca di sfruttare il suo disagio fisico per ottenere quello che vuole. Un anno fa ha iniziato a scrivere delle lettere per l'amica Rosalba, una biondona coatta a cui lei fa da grillo parlante, che voleva ancora dire qualcosa al fidanzato Danilo, finito dietro le sbarre per omicidio. Quando Rosalba trova l'ennesimo compagno bello e ricco e decide di mollare Danilo, Katia capisce di aver scritto tutte quelle lettere con sentimento e decide che Danilo sarà l'uomo della sua vita. Ma tra la disabilità e il sistema penitenziario il loro amore troverà ostacoli duri da sormontare.


La storia che ci racconta Dalla vita in poi, Miglior film della 56esima edizione del Taormina FilmFest e Premio Speciale della Giuria al Montreal World Film Festival 2010, sembra pensata per un drammone sentimentaloide, ma il regista e sceneggiatore Gianfrancesco Lazotti (Chiara e gli altri) riesce a darle una sterzata umoristica garbata e insospettabile rispetto alla materia. Con il volto di una convincente Cristiana Capotondi, che porta sulle spalle la responsabilità della riuscita dell'intero film, Katia riesce a non muovere a sterili pietismi né la sua immagine si concilia con le numerose figure di sante che il cinema immola alla causa del dibattito sociale. La Katia che ci consegna Lazotti, ispirata alla protagonista di una storia vera che il regista conosce e tradisce romanzandola, è una piccola donna combattiva, per necessità fisiologica (ha bisogno di lottare contro la distrofia muscolare), e poetica, per necessità narrativa (Lazotti cita con impudenza perfino Cyrano de Bergerac in apertura). Come ci suggerisce il titolo ambiguo, la tenerezza della giovane libellula non viene dalla sua disabilità quanto dalla sua scrittura epistolare adolescenziale fino alla sdolcinatezza eppure efficace al punto da smuovere qualcosa nell'omone muscoloso, pelato e cattivo, un intenso Filippo Nigro.

La relazione tra una malata e un condannato ha già nella sua conformazione il germe positivo di un motto di spirito ideale per una commedia romantica, ma l'audacia e lo slancio del film non si accontentano di strutturare l'impianto tematico attraverso lo specchio deformante del genere. Dalla vita in poi insiste su un registro progressivamente grottesco e prepara, nel secondo tempo, il terreno all'unico finale che poteva risolvere una parabola fantasiosa ma non troppo distante dalla realtà. Un finale in cui sono portati all'acme della stravaganza i personaggi di un catalogo furbastro che finiscono inevitabilmente per farci sorridere: Rosalba, una imbruttita Nicoletta Romanoff, l'amica del solarium in pantaloni stretch in lurex e zeppe vertiginose che aspetta il calciatore di turno, un direttore del carcere senza polso, che Carlo Buccirosso non si sforza di personalizzare, Ciarnò, un sovrintendente senza cervello incarognito solo dalla vistosa cicatrice sul labbro di Pino Insegno e il suo assistente Vitale, un bravo Gianni Cinelli, che gioca a guardia e ladri, ma ha il cuore di panna.