John Slattery ci racconta il suo Casablanca Mon Amour

Il regista, ospite del Middle East, ci presenta in un lungo incontro esclusivo il suo documentario volto alla scoperta di Star Wars, il gioiello del Nilo, Casablanca e delle altre innumerevoli produzioni girate in Marocco.

Tra i tanti gioielli che questa edizione del fiorentino Film Middle East Now, manifestazione diretta da Roberto Ruta e Lisa Chiari, ci ha offerto vi è un documentario consigliato ai cinefili amanti di Hollywood e ai più curiosi che hanno come meta ideale l'assolato e misterioso Marocco. Il regista John Slattery, americano di origine irlandese, in Marocco ci ha vissuto davvero per due anni e ha deciso di rendere giustizia alla nazione che lo accolto con calore combattendo i tanti pregiudizi sul luogo e sui suoi abitanti a suon di citazioni cinematografiche. Il risultato è un road movie appassionato, parte documentario, parte inchiesta e parte fiction, intitolato Casablanca Mon Amour.

Come è nato Casablanca Mon Amour?
John Slattery: Ho vissuto in Marocco per due anni. Insegnavo inglese in un'Università di Scienze. Dopo il Marocco sono stato un anno a Parigi e poi sono tornato in California, a San Francisco, dove ho cominciato a cercare un impiego. I miei possibili datori di lavoro, intenti a leggere il mio curriculum, erano molto colpiti dal soggiorno a Parigi, mentre il Marocco li turbava. Arrivati a quell'esperienza, cambiavano espressione e mi chiedevano: "Hai avuto paura? E' stato difficile?". La seconda possibile reazione era: "Marocco? Oh, adoro Lawrence d'Arabia". Quando vivevo lì non avevo mai pensato al legame col cinema. Una volta tornato a casa, mi sono reso conto che esistono un sacco di film americani girati in Marocco che hanno influenzato la nostra percezione. In più ho letto un libro, Reel Bad Arabs di Jack Shaheen che affronta il fenomeno della rappresentazione degli arabi come villains. Così ho deciso di fare un film sull'immagine del Marocco fornita dal cinema americano, immagine che è opposta alla realtà visto che la popolazione marocchina è estremamente calorosa, accogliente e quando vivevo lì mi sono sempre sentito perfettamente al sicuro. Tra l'altro nessuno possiede armi, mentre in California sono in molti ad averle.

Casablanca Mon Amour è un road movie, ma è anche un'opera stratificata. E' un metafilm, un bildungsroman, un documentario e un film di finzione. Come hai creato questo puzzle?
Fin dall'inizio sapevo di voler fare un road movie e di voler utilizzare le clip delle pellicole girate in Marocco, ma oltre a ciò la storia non esisteva. Abbiamo dato forma al progetto nello studio di montaggio a San Francisco. Alla base di tutto c'era l'idea di criticare l'attegiamento paternalistico degli USA dove si tendono a raccontare storie sugli altri paesi usando un punto di vista unilaterale. Noi non ci siamo nascosti, ma siamo arrivati in Marocco con grandi telecamere filmando per la strada perché volevamo provocare una reazione nelle persone, volevamo interagire con loro. Abbiamo fatto un casting aperto per trovare i protagonisti annunciando solo che cercavamo ragazzi per una produzione americana.

Il casting di cui stai parlando è quello che si vede all'inizio del film?
Esatto. Nel casting abbiamo trovato Abdel, uno dei due protagonisti, mentre Hassan, che era l'operatore video, non aveva nessuna intenzione di sottoporsi al provino. Hassan è uno studente di cinema, ma non voleva recitare. Sono stati i suoi amici a convincerlo e per noi è stato perfetto avere un attore che desiderava partecipare e un altro che non aveva nessuna voglia di mettersi in viaggio.

Gli inserti in bianco e nero che vediamo sembrano una sorta di backstage.
Abbiamo dato ad Abdel e Hassan una telecamera chiedendo loro di riprendere la troupe. Al primo livello abbiamo la storia fictional del viaggio, la parte del film a colori, dove si racconta il viaggio di due ragazzi per andare a trovare uno zio malato che in realtà non esiste. Il padre di Abdel, però, era molto anziano, allora lui ne ha registrato la voce chiedendogli consigli per il viaggio e questa è la voce che sentiamo nel film. Inoltre Abdel e Hassan sono realmente amici, ma durante le riprese il loro rapporto si è deteriorato tanto che durante la scena della lite Hassan mi ha chiesto se poteva dargli un pugno. La stessa telecamera si è rotta realmente, come vediamo in una scena. Le commistioni tra realtà e finzione sono molteplici e ho cercato di riprodurre questa complessità alternando colore e bianco e nero. A questo ho aggiunto le clip di film celebri.

La fidanzata di Hassan è vera?
Sì, ha insistito per partecipare al casting ed è stata fantastica. Cercavamo solo maschi, ma ci è piaciuta molto e l'abbiamo tenuta.

Poi ci sono le interviste alla popolazione. Alla domanda 'Quale è il vostro attore preferito' quasi tutti hanno indicato action star come Chuck Norris, Sylvester Stallone, Jackie Chan e Charles Bronson.
In realtà citavano per primi attori egiziani o marocchini, ma la seconda risposta era una action star americana degli anni '80. Le donne davano risposte più variegate, ma spesso anche loro citavano gli stessi nomi. Questo risultato è indice della colonizzazione da parte di Hollywood e dei blockbuster degli anni '80 che si sono imposti sul mercato internazionale alterandone la qualità e costringendo le cinematografie europee ad attuare strategie per proteggere la propria arte e la propria lingua.

Avete avuto problemi durante le riprese?
In realtà avremmo voluto averli, ma è andato tutto liscio. La gente ci ha accolto con grande calore. Un giorno ci hanno portato al commissariato per un controllo dei documenti. Il mio tecnico del suono, che è americano, era molto spaventato, ma io gli ho detto di stare tranquillo. Poco dopo è arrivato il commissario e abbiamo scoperto che ci aveva fermato per offrirci il tè e invitarci a cena. Avere degli americani in ufficio scatena la curiosità della gente, infatti la polizia ci seguiva in continuazione, ma lo faceva per proteggerci. L'unico problema che abbiamo avuto era il tempo. L'inondazione che si vede a un certo punto del film era vera e ci ha rallentati.

Qual'è il tuo rapporto con Hollywood?
I miei genitori sono irlandesi immigrati in California. Mio padre ama molto gli USA, ma mia madre non si è mai ambientata fino in fondo e ha scelto di farmi studiare in Irlanda per acquisire una mentalità più aperta. Ho studiato cinema in California e ho collaborato ad alcune grandi produzioni. L'industria americana ha un livello di specializzazione elevatissimo e i tecnici sono straordinari, ma ho imparato ad apprezzare le pellicole della Hollywood classica solo di recente. Per esempio, prima del mio documentario non avevo mai visto Casablanca perché preferivo concentrarmi sulle cinematografie europee.

A quali progetti stai lavorando ora?
Quando ho incontrato di nuovo Hassam al festival di Dubai lui mi ha proposto di lavorare ancora insieme. Se riusciamo a reperire i fondi, probabilmente realizzeremo un documentario sul musicista che ha realizzato la score di Casablanca Mon Amour e sul suo gruppo. Al momento sto realizzando un documentario su un monastero che sta per chiudere perché i monaci che vivono all'interno sono sempre più anziani. In più, da undici anni sto lavorando a un progetto sugli homeless. Ora abbiamo finito le riprese e lo sto montando. E' la storia di un uomo che a cinque anni perse la madre, uccisa dal padre. E' stato in carcere, poi ha fatto il pugile e ha avuto successo come cantante di un gruppo r&b, i Nightbrothers. In seguito è finito sulla strada, dove ha vissuto per 25 anni, ed è lì che l'ho conosciuto. Ora ha di nuovo un appartamento e sta cercando di rimettere insieme i pezzi della sua vita. Ha ancora una voce bellissima e vorrebbe incidere un disco.