James Gray: un 'migrante' di lusso a Roma

Abbiamo incontrato l'attuale presidente della giuria dell'ottavo Festival del Film di Roma, per una chiacchierata interessante e stimolante, che ha spaziato dal suo ultimo The Immigrant a vari temi di attualità, cinematografica e non.

Incontrando James Gray, non abbiamo incontrato solo l'attuale presidente di giuria del Festival del Film di Roma. Il cineasta americano, infatti, è a nostro avviso uno dei più interessanti (per non dire: dei migliori) registi che il cinema americano abbia prodotto nel corso degli ultimi 20 anni: pur nel carattere estremamente parco della sua produzione (ma ciò può essere, e nel caso specifico è, segno di ricerca della qualità) Gray ha sempre colpito nel segno, con una classicità che non è riproduzione manichea del passato, ma capacità di rielaborare, proiettandoli in un cinema che guarda avanti, i temi e le topiche di un secolo di film americani.
Persona cordiale come raramente ci capita di incontrarne nel nostro lavoro, oltre che estremamente colta, il regista ha parlato con noi del suo ultimo film The Immigrant, già presentato a Cannes e di prossima uscita nel nostro paese; spaziando inoltre su temi cinematografici e non, ed esprimendo anche giudizi "forti", che senz'altro non saranno condivisi da tutti, sui festival cinematografici e sulla fruizione stessa dei film nel loro contesto. Una chiacchierata stimolante e divertente, che si è aperta con una vera e propria dichiarazione d'amore per il nostro paese: "Questo paese è veramente il migliore", ha esordito Gray. "L'amore che ho per l'Italia credo si veda anche nei miei film. Il debito con La strada di Federico Fellini, in quest'ultima pellicola, è evidente, mentre nei precedenti c'è molto Luchino Visconti, spesso nei miei film inserisco la musica di Puccini. In Italia la vita è difficile, certo, ma lo è dappertutto: è un mondo difficile, questo, e sono difficili i tempi in cui stiamo vivendo." E' anche vero, però, che noi italiani siamo incapaci di valorizzare come potremmo il nostro patrimonio culturale.

Nessuno usa del tutto il proprio potenziale culturale. Basti pensare a Miles Davis, per esempio: un genio, che non è stato mai considerato molto negli Stati Uniti, fino al 1960; oppure, basti ricordare i primi film di Fellini, che furono fischiati a Venezia: c'è voluta la presentazione negli Stati Uniti per apprezzare un film come La strada. Per ogni opera d'arte c'è bisogno di un po' di distanza culturale, e anche di distanza temporale, perché venga completamente apprezzata. Il tempo, poi, può essere brutale o meraviglioso, a seconda dei casi: ci sono film che, al momento della loro uscita, vengono accolti entusiasticamente, e rivedendoli dopo anni ci si domanda "ma cosa ci vedeva la gente in questo film?" E, dall'altro lato, ci sono altri film che ora sono considerati capolavori assoluti, e che all'epoca erano stati accolti così così: uno di questi è Apocalypse Now, che ebbe recensioni miste, spesso negative. Rivedendolo adesso, ci si chiede come facevano, quei critici, a non coglierne la grandezza. La stessa cosa vale, per esempio, per un altro film del mio amico Francis Ford Coppola, Il padrino - Parte seconda. Per questi film, il tempo è stato buono; ma non lo è stato per tanti altri film. La maggior parte, in effetti.

Il film tratta un tema come l'immigrazione, che, nell'Europa odierna, è di straordinaria attualità. Come si pone verso questo argomento?
Come ho avuto modo di dire in passato, la storia dell'umanità è una storia di migrazioni. Non riesco a vederci nulla di negativo, almeno nel lungo periodo; ci sono inconvenienti nel breve periodo, ovviamente, come la povertà e la necessità di attingere, da parte delle persone immigrate, ai servizi sociali; ma nel lungo periodo, i risultati possono essere solo positivi. Immigrazione significa nuova culture, nuove persone, nuovi modi di vedere il mondo: tutto questo può portare a cose meravigliose. L'ho visto, per esempio, a Los Angeles, dove l'influenza della cultura latino-americana ha portato a una rinnovata, straordinaria vita culturale: questo, solo 20 anni fa, non me lo sarei mai aspettato. Lo vedo nel cibo, nello stile, nella cultura di strada che è emersa: Los Angeles, attualmente, è un importantissimo centro artistico e culturale, per gli Stati Uniti e, direi, per il mondo intero. L'immigrazione mantiene la cultura sempre fresca e interessante, la rivitalizza. In un certo senso, per l'America, rappresenta una sorta di salvezza. In Europa, poi, c'è un problema di stagnazione demografica, che impedisce al continente di crescere e di rivitalizzarsi; un processo che mantiene l'Europa bloccata, ferma anche culturalmente. L'immigrazione, nel lungo termine, può contribuire a rivitalizzarne la cultura.

Pensa che l'aver diretto un film che tratta l'immigrazione negli Stati Uniti degli anni '20, possa sensibilizzare al tema dell'immigrazione attuale?
Ovviamente ho pensato a questo, quando ho fatto il film: ma tutti i film, così come in genere tutta la narrativa, funzionano anche come metafora. Ogni film ha più livelli: c'è la superficie, e poi c'è quello che sta sotto, che è il cuore del film stesso. Il mio film è stato proiettato a Cannes, e devo dire che, purtroppo, in quel contesto ciò che viene fuori è solo la superficie. Questo lo so perché sono stato anche in giuria, a Cannes: si vedono così tanti film, che non si ha tempo e modo di approfondire. Ciò che resta è solo la superficie, la banale narrativa del film.

Lei, nell'occasione, parlò di un elemento autobiografico, nel suo film, relativo ad alcuni membri della sua famiglia. Può spiegarcelo?
Sì, si tratta dei miei nonni, che giunsero a Ellis Island nel 1923. Ho messo molto di loro, nel mio film, specie nei dettagli; ma anche in una sorta di malinconia che attraversa tutto il film. Ho cambiato la religione, però; l'ho fatto perché ho pensato che la storia avrebbe assunto i tratti di una storia di "peccato e redenzione", che è un'idea molto istituzionalizzata nella religione cattolica. Noi ebrei non abbiamo un concetto del genere, almeno non in forma istituzionale: abbiamo la colpa, certo, ma nel nostro caso è più un fatto culturale. I miei nonni sono presenti anche, fisicamente, nel film: in una scena, Marion ha un medaglione in cui si vede da un lato la foto di sua sorella, dall'altra quella dei miei nonni. E' stato strano rivederli sullo schermo.

E' stato difficile girare realmente a Ellis Island?
Disastroso, direi. Il problema è che non hanno chiuso Ellis Island per il film: il risultato è che potevamo girare solo di notte. Io volevo girare lì per avere la massima autenticità, ma non ho pensato alle implicazioni logistiche; faccio un esempio. Pensate a una sequenza ambientata di giorno, in una grande stanza che ha una capacità di 7.000 persone, sita al secondo o al terzo piano: avevo 800 attori, e la stanza era interamente circondata dall'acqua, a 18-25 piedi di altezza, con intorno delle bellissime finestre: ognuna doveva essere illuminata da una luce di 10.000 watts. Quelle luci dovevano essere rette da altrettante gru, e tutto il personale andava reperito, seguito, nutrito: è stato logisticamente un incubo. L'abbiamo fatto, ma è stata una follia: ho perso due giorni solo per girare lì, in quella stanza. Ma non c'erano altre soluzioni.

Quella di Marion Cotillard per il ruolo principale è stata la sua prima scelta?
E' stata l'unica e sola scelta. Ho scritto il ruolo appositamente per lei: se avesse rifiutato, non avrei fatto il film. Amo il suo volto, sembra un'attrice del cinema muto: è bellissima, ma di una bellezza non da cliché. Amavo il suo volto, e volevo sfruttarlo: il film è stato fatto appositamente per lei e per Joaquin Phoenix. Jeremy Renner, invece, è subentrato in un secondo momento, ma si è rivelato comunque perfetto per il ruolo: il suo volto è incredibilmente somigliante a quello del personaggio reale a cui mi sono ispirato.

Il titolo iniziale del film doveva essere Low Life. Perché alla fine si è scelto altrimenti?
All'inizio il film non aveva titolo, poi ho pensato di intitolarlo Low Life, ma c'erano alcuni problemi: innanzitutto, c'erano già troppi film con quel titolo, e poi ho pensato che il titolo, e specie quell'aggettivo "low", potessero essere fraintesi. Alla fine, ho pensato a un titolo che fosse il più semplice possibile: come nelle opere, che spesso hanno come titolo i nomi dei personaggi principali: Falstaff, ad esempio, o Madame Butterfly. C'è stato un breve contrasto, sul titolo, ma alla fine ho avuto la meglio nel mio proposito di usare un titolo semplice.

Il film può essere collegato all'opera anche da altri punti di vista?
L'idea era proprio fare un film che fosse un po' come un'opera, che soprattutto guardasse al passato, e anche al periodo del cinema muto: i film muti, spesso, raggiungevano livelli di poesia a cui i film moderni nemmeno si avvicinano. Basti pensare a un capolavoro come Aurora, o a quel bellissimo finale di Luci della città. Chaplin era un genio assoluto. Non riusciamo a catturare quella stessa poesia, oggi, e non capisco perché: forse sono i dialoghi che ci ostacolano. Forse solo Stanley Kubrick, in 2001: Odissea nello spazio, è riuscito ad avvicinarsi a quello stesso livello di poesia.

Prima ha parlato di diversi livelli di visione, in un film, di una superficie evidente e di un livello più profondo. Questo livello è spesso difficile da cogliere, nel contesto di un grande festival...
Il mio film è andato a Cannes: ma, in realtà, i film non sono fatti per essere proiettati a Cannes. A me davvero non piace portare i miei film in quel festival: è una cosa buona solo per i distributori francesi, ma per me è davvero una sofferenza. I miei film, nella superficie, sono classici, raccontano una storia: ciò che voglio fare io, in genere, è un film la cui narrazione sia chiara. Quello che invece, spesso, viene apprezzato nei grandi festival, è una sorta di illusione di sperimentazione formale. Dico illusione, perché vedo che i film più considerati, in realtà, sono tutti simili l'uno all'altro: c'è una sorta di stasi nel cinema d'autore degli ultimi 40 anni, con dei cliché che prevedono l'uso di camera a mano, una certa grettezza nella forma, delle storie ellittiche. E' come se io stessi tentando qualcosa di stupido, quando faccio un film: perché so che, anche se riuscirò a fare il film che voglio, la gente lo apprezzerà del tutto solo tra 10 anni. E non è un gran risultato. Il mio film precedente, Two Lovers, a Cannes ha ricevuto un'accoglienza tiepida, in molti casi negativa; ma vedo che ora, dopo tre anni, il film ha molti fan, e spero che la gente ci veda di più di della storia di due ragazze e un uomo.

Può parlarci, più approfonditamente, di quello che è questo livello più profondo, nel suo ultimo film?
Questo film, formalmente, voleva essere un melodramma, dallo stile che richiamasse l'opera: ma è anche, e soprattutto, un film sulla dipendenza, con uomo e donna che hanno bisogno l'uno dell'altra, in un modo che li porta a distruggere se stessi. Credo che il cuore del film sia una sorta di storia d'amore perversa tra queste due persone: non dico che lei lo ami, perché è un essere umano rivoltante, ma certamente ha bisogno di lui. C'è una parte di lei che è molto auto-distruttiva; ciò non vuol dire che sia colpa sua, ma vediamo lei stare con lui quasi a tutti i costi: sono quasi come una coppia sposata.

Per lei, quindi, il personaggio di Joaquin Phoenix è del tutto negativo? O riesce a esprimere una sorta di comprensione anche per lui?
Alla base di tutto c'è sempre quella morale cristiana, francescana, per cui "non c'è nessuno sotto di noi". Devo amarlo, quel personaggio: ha fatto cose terribili, è vero, ma alla fine si "confessa" a lei, e lei lo perdona. Penso che lui ci riveli una sorta di terribile odio per se stesso; un odio chiaramente basato sulla necessità di sopravvivere. Lo dice anche chiaramente, nel film: dice "Io cerco solo di sopravvivere". Non credo che noi possiamo immaginare davvero la situazione in cui si è venuto a trovare: queste persone, probabilmente, arrivavano in America all'età di 4-5 anni, completamente sole, e dovevano fare di tutto per sopravvivere. E' facile, per noi, guardarle dall'alto in basso. Quello che lui fa a lei è terribile, ma chi può dire se, sotto le stesse circostanze, noi non avremmo fatto lo stesso? Io sono ebreo, e, se fossi nato in Germania, certo non sarei stato nazista. Ma chi può dire cosa sarei stato se fossi stato un tedesco non ebreo? Se fossi vissuto in Germania nel 1935, con l'economia che era finita nella spazzatura, il paese che stava andando completamente in pezzi, cosa avrei fatto? Ho paura, nel pensare che sarei potuto diventare un nazista anch'io. Le circostanze, e le forze culturali, sono così potenti, che ci impediscono di esprimere un giudizio definitivo sulle persone: e sto parlando del nazismo, ovvero del male storico assoluto. Ho letto un'intervista molto interessante, a questo proposito, a una donna ebrea di 95 anni che ora vive nell'Ohio: diceva di aver perdonato i suoi aguzzini di Auschwitz. L'intervistatore le chiedeva come avesse fatto a perdonarli: lei ha risposto che il potere di perdonare era con lei, non con loro; e che perdonandoli aveva lasciato andare tutta la sua rabbia. Io credo che questo sia bellissimo, e ho provato a inserirlo nel film: alla fine lei lo perdona, nonostante tutto. Il potere del perdono è molto forte, ed umanizzante: è un'idea molto cattolica, certo. Come si fa a far arrivare tutto questo a Cannes, in una proiezione stampa alle 8 del mattino, dopo che magari la sera prima si è stati a una festa?

Si ritorna al tema dei festival, e alla difficoltà nel cogliere tutte le sfumature di un film in un contesto così caotico...
Credo davvero che i festival non siano il luogo migliore per vedere un film. E lo dico anche da persona che è stata in giuria, a Cannes. A Cannes, di solito, la valutazione dei possibili vincitori arriva intorno ai 2/3 del festival: questo succede perché, normalmente, il festival apre con titoli forti, due o tre film che si sa che tutti apprezzeranno. La giuria li vede, li apprezza, e poi, intorno ai 2/3 del festival, inizia a chiedersi "dove sono gli altri buoni film?" A quel punto, ne vedono uno che gli piace, e regolarmente, dopo aver visto quello, nessun altro film ha la possibilità di vincere. L'ho visto succedere: e, sia chiaro, non è una critica al presidente di giuria di allora, che fece un grande lavoro. Il problema è proprio che i festival non sono il luogo ideale per vedere un film. L'idea stessa del concorso, poi, è stupida: miglior film? Cosa vuol dire? E' una definizione riduttiva. Ogni film è diverso dall'altro. Hitchcock, per esempio, non avrebbe avuto fortuna a Cannes: immaginate come sarebbe stato accolto La finestra sul cortile. Avrebbero detto, probabilmente, che era solo un film divertente.