Recensione Bobby (2006)

Estevez al cervello accompagna il cuore e riesce a raccontare un evento centrale della storia politica americana con un umanesimo sorprendente, andando oltre il suo specifico e tragico significato.

Istantanea d'autore

E' stata un'odissea produttiva e artistica quella che ha accompagnato Emilio Estevez nei lunghi anni che separano il progetto di Bobby dalla sua effettiva realizzazione. A quanto pare un'odissea proficua, visti i risultati. Bobby ricostruisce la lunga giornata del 4 giugno 1968, durante la quale Robert F. Kennedy fu ucciso poche ore dopo essere stato eletto nuovo presidente degli Stati Uniti, all'Hotel Ambassador. Ed è proprio l'Hotel al centro di un film che racconta le vicende di ventidue personaggi che si trovano all'interno della struttura, chi per lavoro, chi per soggiorno.

Evitando accuratamente territori ultra battuti e a rischio di facile retorica, Estevez utilizza il racconto corale altmaniano con sorprendente equilibrio e scioltezza, concentrandosi sui percorsi umani dei suoi numerosi personaggi e inserendoli proficuamente nella cornici delle elezioni presidenziali. Non c'è infatti molto spazio per la mera cronaca politica in Bobby: questa è presente per lo più attraverso le immagini di repertorio (senza licenze o idiozie post-produttive alla Forrest Gump per intenderci) e sotto forma di traccia sonora nello splendido finale. Perchè Bobby è essenzialmente un film su uomini e donne, ragazzi e anziani, neri e messicani, attivisti e figli dei fiori, in attesa di un cambiamento che gli verrà negato. La forza e il poderoso fuori campo dei personaggi sono frutto delle scelte di Estevez, ma anche della qualità di un cast ricco, convincente e variegato, che sfrutta nella maniera migliore la carica iconica degli interpreti. Tra volti emergenti, star in decadimento (Demi Moore nella sua prova migliore di sempre) e sicurezze assolute, spicca però un gigantesco Anthony Hopkins (non a caso anche produttore del film) finalmente degno di una prova attoriale di intensità assoluta. Portiere in pensione e ideale narratore esterno dele vicende il suo personaggio pare prendersi carico dell'intera portata simbolica del film in pochi sguardi e battute.

Sguardi e battute che fanno di Bobby un'opera preziosissima. La freschezza e la qualità del cinema di Estevez sono il risultato di uno sguardo generoso e sincero, sofferto e partecipe. Non è un caso se si è fatto più volte ricorso alla nozione di sguardo. E' questa infatti una delle più evidenti differenze tra Bobby e la gran parte dei film che negli ultimi anni si sono appropriati della coralità altmaniana, esasperandone con poca cognizione toni e situazioni (vedasi l'inconcludente Crash - contatto fisico). Estevez invece, al cervello accompagna il cuore e riesce a raccontare un evento centrale della storia politica americana con un umanesimo sorprendente. Andando oltre il suo specifico e tragico significato, travalicandone la specificità sociologica. Di per sè insondabile, giornalistica. Perchè Bobby racconta di una speranza cresciuta all'interno della società civile americana attraverso gli occhi di un cuoco nero, commosso dalla regalità di un gesto di uno dei suoi aiutanti, o attraverso quelli di due innamorati o di una manicure malinconica. E attraverso questi stessi occhi, documenta lo smarrimento di una fine decretata prima ancora che ci potesse essere un nuovo inizio.