Recensione La bella società (2009)

Una storia d'amore tra Raoul Bova e la Cucinotta, il continuo susseguirsi di drammi famigliari e molto altro ancora, per questa pellicola ambientata in Sicilia e resa a tratti indigesta dall'eccessiva enfasi del racconto.

Io (non) ti vedo

Tra le tante storie dal sapore melodrammatico che Gian Paolo Cugno ha voluto comprimere nel suo lungometraggio, infarcito di troppe scene madri, vi è pure il complesso rapporto tra due fratelli, cresciuti in modo selvatico per l'assenza del padre, prelevato a sua volta in circostanze drammatiche da uomini di cui è facile ipotizzare una qualche affiliazione mafiosa. Ci troviamo del resto nella Sicilia di qualche decennio fa, affrescata con colori vividi e toni decisamente enfatici. Ma attenzione, perché La bella società non è uno di quei film sulla Mafia che tanto sembrano irritare l'attuale Presidente del Consiglio, perennemente angustiato dal timore che l'immagine del (bel)paese possa essere offuscata da fatti che saranno anche brutti, ma in compenso sono tremendamente reali. Quello di Cugno non è affatto un prodotto di finzione incentrato sulla Mafia, bensì un minestrone in cui sembra esserci piovuto a casaccio un po' di tutto: losche imprese di malviventi locali, proteste di contadini che sfociano nel sangue per colpa di qualche tutore dell'ordine dal grilletto facile, storie d'amore minate dal carattere autoritario e tradizionalista del "tipico maschio siculo", segreti di famiglia, cinematografari romani in trasferta verso sud. A livello di plot c'è davvero tanto, anzi troppo.

Abbiamo inizialmente isolato un frammento di questa epopea che attraversa la storia della Sicilia dalla fine degli anni '50 all'inizio degli anni '80, scalfendone i mutamenti sociali con perniciosa superficialità; ed è proprio quello riguardante i due fratellini, resi diffidenti verso l'esterno al punto di esprimere la propria gelosia nei confronti della madre, l'attraente Maria (Maria Grazia Cucinotta), in modo sempre più morboso. A farne le spese sarà il nuovo corteggiatore della donna, nei fatti ormai vedova, ovvero il gagliardo e intraprendente Romolo "de Roma", cinematografaro della Capitale in trasferta sicula; lo interpreta un Raoul Bova che sembra voler condensare tutta la propria romanità in un unico concetto, il "voler fare il simpatico" a tutti i costi e in ogni frangente, con esiti attoriali piuttosto ripetitivi. Questo suo atteggiamento farà breccia comunque nel cuore di Maria, a lungo andare, ma non lo aiuterà di certo a conquistare la fiducia dei figli. Dall'incidente che ne deriva (particolarmente drammatico per Romolo) scaturiranno conseguenze molto gravi anche per i due fratelli: uno di loro, Giorgio, riporterà danni serissimi agli occhi, mentre l'altro, Giuseppe, sarà costretto da quel momento in poi a convivere con lancinanti sensi di colpa. La speranza che Giorgio possa recuperare l'uso della vista sarà, nella parte del film in cui loro sono adulti, uno dei motori del racconto, con tutta una serie di colpi di scena della serie: ora ti vedo, ora non ti vedo più, ora ti vedo di nuovo.

Già da questo si può arguire come La bella società si appoggi per buona parte della sua durata a trovate degne di un feuilleton d'altri tempi, con la recitazione dei protagonisti (lasciati quasi sempre a briglia sciolta, spinti anzi a enfatizzare qualche dialogo di per sé ridondante) che sbanda paurosamente. Da Raoul Bova e Maria Grazia Cucinotta non ci si può forse aspettare grande energia introspettiva, ma quando attori di provata esperienza come Giancarlo Giannini, Enrico Lo Verso e il leggendario Franco Interlenghi si lasciano prendere da cotanta enfasi, allora il baratro è prossimo.

L'enfasi è anche uno dei tratti dominanti dello stile registico di Cugno, vario ma quasi sempre sopra le righe, quasi a voler emulare con sofisticati movimenti di macchina e dolly à gogo lo stile dell'ultimo Tornatore, quello di Baaria, il cui sfarzo un po' fine a se stesso ci era presto venuto a noia. Del giovane regista siciliano si può in parte apprezzare l'incipit con i giovanissimi attori in scena, che ha una vivacità nel rievocare l'infanzia dei due fratelli tale da ricordare, nei suoi contorni di fiaba tragica, film di forte impatto emotivo come La corsa dell'innocente di Carlo Carlei, che all'epoca suscitò qualche clamore. Ma è un retaggio destinato a perdersi, purtroppo, nel corso della visione.