Recensione Inkheart - La leggenda di cuore d'inchiostro (2008)

Il regista Iain Softley dirige un film che ambisce a unire una riflessione sulla pagina stampata, sulla sua fruizione e il suo rapporto col cinema, con le esigenze narrative proprie del genere fantasy.

Inchiostro vivo

Mondi fatati irrompono nel cinema hollywoodiano, mondi paralleli che ambiscono a rappresentare alla perfezione i nostri sogni infantili, mondi letterari in cui perdersi o ritrovarsi, in cui ragionare di fedeltà o meno a "come ce li eravamo immaginati"; personificazioni del nostro inconfessato desiderio di veder materializzarsi ciò che noi stessi, come lettori-creatori di storie, avevamo plasmato nei territori più intimi, segreti della nostra mente. E' in fondo interessante, da questo punto di vista, il soggetto di questo Inkheart - La leggenda di cuore d'inchiostro, un soggetto quasi metacinematografico che, nel momento in cui postula l'esistenza di "lingue di fata" capaci di dare una vita oggettiva, riconosciuta tanto dai lettori quanto dagli autori, alle eteree creature letterarie che popolano il nostro immaginario, ribadisce implicitamente l'incapacità del cinema di "assolutizzare" la pagina stampata, di cui questo restituisce una visione sempre parziale, filtrata, inevitabilmente deludente per chi guarda. Ed è proprio il rovesciamento del "relativismo" implicito della creazione letteraria, contemporaneamente smentito dalla sua stessa trattazione filmica (la pellicola è ispirata a un best seller della scrittrice Cornelia Funke, già capostipite di una fortunata saga) il tema centrale del film, e il motivo principale del suo interesse.

Certo, il fantasy ha regole e (stereo)tipi precisi a cui la sceneggiatura non può derogare, rivelando anzi una certa ansia nel rendere gli eventi il più possibile leggibili, fruibili e utilizzabili dal pubblico di giovani e giovanissimi a cui l'operazione è comunque, principalmente, rivolta. Via libera, quindi, ai conflitti generazionali un po' schematici (la bambina che non è più tale e che vuole la verità come pegno del suo passaggio all'età adulta), ai comprimari burberi ma dal cuore d'oro (la vecchia zia collezionista), ai nemici malvagi ma in fondo simpatici, ai mitra che non sparano mai, agli avversari-alleati destinati a giocare un ruolo fondamentale (un Dita di Fuoco interpretato da un efficace Paul Bettany). Lascia un po' perplessi, questa continua, avvertibile urgenza di ricondurre il tutto a coordinate note, familiari, accessibili, proprio in virtù dell'interessante spunto iniziale, della riflessione che il film abbozza e riesce pure, in parte e in modo discontinuo, a portare avanti. Resta comunque una buona regia, opera di un esperto shooter come Iain Softley (di lui si ricordi il recente thriller The Skeleton Key), un ritmo sostenuto, un interessante climax che conduce a un finale in cui tuttavia la sceneggiatura non riesce a fare a meno di incartarsi, incespicando un po' sulla rosa delle "vie d'uscita" possibili. Brendan Fraser è attore funzionale ai ruoli d'azione ma qui un po' statico nella recitazione, mentre al già citato Paul Bettany si aggiungono la giovane Eliza Bennett e un Andy Serkis un po' sprecato nel ruolo del villain di turno.

Su tutto si avverte questa natura "doppia" del film, il tentativo di dar vita a un fantasy con una fisionomia riconoscibile, una personalità propria e un'impostazione quasi autoriale, unito a una pressante necessità di muoversi in coordinate note, che permettano di agganciare l'opera al generale, buon momento che il genere sta vivendo al cinema. Negli anni '80, Wolfgang Petersen ci era riuscito un po' meglio col suo La storia infinita, ma si sa che quelli erano altri tempi, altri mondi, altri modi di vedere film. Questo Inkheart, comunque, pur nelle sue contraddizioni, può divertire, intrattenere, a tratti ammaliare: può senz'altro bastare per i cercatori, quegli spettatori che, come moderni rabdomanti, siano capaci di estrarre le piccole gemme nascoste sotto la "leggera" patina di intrattenimento di film come questi.

Movieplayer.it

3.0/5