Recensione L'innocenza del peccato (2007)

Fedele a molti dei tratti cari al suo cinema, dal tema dell'ossessione allo smascheramento di una certa società borghese, con questo film Chabrol si insinua nell'ambiguità e nelle diverse venature del desiderio e della perversione, sia maschili che femminili.

In the Cut

Per quanto la qualità del cinema di Claude Chabrol possa essere oggettivamente discontinua (il lavoro precedente, La commedia del potere, ne è un sonnolento e perfetto esempio), L'innocenza del peccato non avrebbe certo sfigurato nella ricchissima selezione dell'ultima Mostra del Cinema di Venezia, piuttosto che rimaner relegato alla (un po' triste ammettiamolo) sezione Venezia Maestri; ma per fortuna il regista francese è uno dei pochi nomi mai dimenticati dalla sempre claudicante distribuzione nostrana, ecco quindi finalmente nelle nostre sale l'ultima interessante fatica di uno dei maestri della Nouvelle Vague.

Una soggettiva dall'interno di un'automobile è la sequenza di abbagliante bellezza, virata in tinte sanguigne, che apre La fille coupée en deux (il più stuzzicante titolo originale, di gran lunga preferibile alla didascalica e telefonatissima titolazione con cui il film esce nelle nostre sale, L'innocenza del peccato); un'addentrarsi ideale nelle viscere di una passione, un'esplorazione sotterranea dei sentimenti che legano la bella e ingenua Gabrielle (una brava Ludivine Sagnier) ad un attempato scrittore (François Berléand) che la condurrà negli abissi delle sue perversioni, e ad un giovane rampollo innamorato di lei (forse il migliore del trio, Benoît Magimel). Fedele a molti dei tratti cari al suo cinema, dal tema dell'ossessione allo smascheramento di una certa società borghese, con questo film Chabrol si insinua nell'ambiguità e nelle diverse venature del desiderio e della perversione, sia maschili che femminili. Ce ne mostra le drammatiche conseguenze preferendo lasciare fuori campo, al non visto e all'immaginazione quindi, l'architettura della falsità e della menzogna che ne sottende le trame. Spoglia i propri personaggi e il prisma delle loro personalità da un'innaturale razionalità del desiderio, si addentra nel territorio oscuro dell'irragionevole, della follia incontrollabile dell'amour-fou, ma senza riproporne il lirismo quanto semmai schernendola. Un meccanismo complesso e sottile è quello messo in scena non senza ironia di fatto dal regista francese, che innesca non solo la ovvia guerra tra le parti ma ancor meglio ritrae i più cupi e distruttivi conflitti interiori dei personaggi in scena.

È la lacerazione causata dal desiderio che caratterizza in modo distinto i tre personaggi principali dunque il tema centrale e la direttrice ideale di questa torbida e travolgente trama di passioni. È quella più superficiale dello scrittore e quella distruttiva, irrimediabilmente legata alla follia, del giovane Paul; ma soprattutto è quella di Gabrielle, algido e innocente frutto che attrae le attenzioni maschili, impertinente ragazzina intrappolata nel turbine del suo dramma affettivo, pronta a dimenticare ogni insegnamento morale della madre per abbandonarsi ai morbosi sentimenti di Charles e per questo "incomprensibile" amore accantonare anche ogni altra ambizione. E questa costante dualità (quella che già dal titolo è messa apertamente in evidenza) è il punto di forza del film ma, benché giustifichi una certa incomprensibilità di alcuni passaggi, rischia di diventarne anche il maggiore difetto: la continua contrapposizione di un carattere e del suo contrario azzarda in più occasioni di accartocciarsi nei territori dell'inconcludenza. "Nel taglio" quindi si instaurano tutte le ambiguità di questo film, le sue innegabili qualità quanto le sue incongruenze.

Che si preferisca, ancora, definire questo film "marchiato" dal regista di Grazie per la cioccolata (denotazione dal carattere evidentemente spregiativo che rimanda all'anonimato e alla serialità del prodotto industriale) o piuttosto "firmato" dal maestro Claude Chabrol, è un dibattito un po' sterile ma cui molti amano riempirsi la bocca.
Che si sia annoiati dalla furbetta pigrizia che talvolta traspare dal cinema di Chabrol o che si sia difensori ad oltranza, come forse chi scrive, della sua irriverente poetica, ai dubbi rivolti a questo film da forse una risposta definitiva la sequenza finale (indimenticabile quanto quella d'apertura); si voglia indicarla come geniale chiusura della pellicola o come astuta manovra per recuperare i fili di questo teatrino chabroliano, è comunque il finale perfetto del racconto, in cui viene richiusa la ferita fin'ora indagata rinnovando l'attenzione verso la labile natura dei sentimenti.