Recensione Ararat (2002)

Nonostante l'indubbio interesse per il tema affrontato, non convince a pieno quest'ultimo film dell'ottimo regista canadese di origine armena Atom Egoyan, troppo slegato e contorto per lasciare il segno.

Il tragico eccidio degli armeni

Esce finalmente nelle sale italiane, Ararat, ultima opera di Atom Egoyan, dedicata a una pagina buia e poco esplorata della storia del '900: l'eccidio armeno ad opera dei turchi. Presentato a Cannes 2002 e distribuito in poche copie solo adesso, il film ha subito numerosi slittamenti, tra i quali l'ultimo (dovuto al non ottenimento del visto della censura) di notevole importanza simbolica, perché ha impedito l'uscita nelle sale nella ricorrenza dell'eccidio armeno: il 24 aprile.

Se comunque, certa è l'importanza storica del film, che affronta un tema particolarmente delicato e scottante, bisogna purtroppo rilevare l'incompiutezza generale dell'opera che in sostanza delude per varie ragioni; una su tutte il dilagante intelettualismo che fa da sfondo a tutta la pellicola, un intellettualismo che è da sempre il marchio di fabbrica del cinema di Egoyan, ma che in questo caso, per il tipo di argomento trattato, appesantisce la narrazione rendendola disequilibrata e farraginosa. Il talentuoso ed originale regista canadese (che ricordiamo autore degli ottimi Exotica e Il viaggio di Felicia), difatti non rinuncia alla sua idea sofisticata di cinema, ricca di trovate narrative e temporali, ma l'eccessivo sovraccarico di significati finisce per frammentare l'unità del racconto e la stessa tensione drammatica. E' in sostanza l'intuizione base della sua pellicola e cioè: l'idea di raccontare la storia dello sterminio armeno, tramite gli occhi di un regista che gira un film sull'eccidio appunto, a lasciare perplessi. Questa esigenza meta-cinematografica, all'interno della quale Egoyan inserisce numerosi e complessi temi come quello dell'identità, del confronto, dell'accettazione e del modo in cui viene tramandata la storia, appare in questo caso fuori luogo. Sembra, che l'immaginario di riferimento di Egoyan sia sempre ed in ogni caso il cinema, anche quando invece, dovrebbe essere la storia a fornire la materia da cui trarre la propria ispirazione.

Probabilmente il buon Egoyan, avrebbe dovuto seguire il percorso di un altro regista di indiscutibile personalità ed originalità estetica, quel Roman Polanski che ci ha fregiati con Il pianista di un'opera composta, equilibrata e quasi invisibile dal punto di vista della regia, conscio che il confronto con un tema di tale portata, richiede l'utilizzo di un registro stilistico il più possibile naturalistico e documentarista, lontano sia dalla spettacolarizzazione fine a sé stessa, sia dal manicheismo pietista. Polanski, infatti, differentemente da Egoyan, in Il pianista ha messo da parte i suoi celebri simbolismi e le sue affascinanti ossessioni per lasciare parlare le immagini, guidandole senza invadenza, mostrandocene l'essenza più profonda e drammatica.

Non che siano, in ogni modo, del tutto assenti momenti di alto contenuto estetico e drammatico o anche di notevole impatto emotivo, in Ararat, quanto piuttosto ciò che lascia delusi è la loro de-simbolizzazione; finisce il film e angosciosametne si ha la sensazione che un'occasione per raccontare e mostrare un ingiusto e sanguinoso eccidio, è stata perduta.