La Compagnia dell'anello, 15 anni dopo: una saga per ghermirci e nel fantasy incatenarci

Un film per incatenarci tutti. Alla meraviglia, all'epica, all'amicizia, ad un viaggio che forse non è mai finito davvero. Era il 18 gennaio 2002 quando La Compagnia dell'Anello arrivava sui grandi schermi italiani. Da allora nel cinema, nel suo regista, nei suoi attori e nei nostri occhi niente è stato più lo stesso.

Orlando Bloom e il regista Peter Jackson sul set di Il signore degli anelli - Le due torri
Orlando Bloom e il regista Peter Jackson sul set di Il signore degli anelli - Le due torri

Le leggende narrano di un racconto magico. Una storia divisa in tre parti, proprio come i grandi classici omerici ci hanno sempre insegnato: il viaggio, l'assedio e il ritorno. Il lungo cammino di una compagnia di avventurieri, la resistenza dietro le spesse mura del Fosso di Helm e il rientro nella Contea, dove nulla poteva essere puro e ingenuo come prima. Ecco gli atti fondamentali di ogni grande epopea. A scriverla è un ispirato filologo britannico, che fece la Grande Guerra e di grandi guerre scrisse, che visse mentre "la razza" diventò una folle ossessione e di razze parlò, senza voler mai abbracciare la metafora del suo racconto. "Ho una pacata avversione per l'allegoria" disse J.R.R. Tolkien, il papà de Il Signore degli Anelli, romanzo mitico sulle eroiche gesta di mezzuomini, elfi, umani, nani e maghi che decidono di abbandonare vecchi rancori, pregiudizi, egoismi e vanagloria in nome di un Bene più grande, uniti contro un Male tentatore e ammaliante. Un romanzo talmente denso e complesso, attraversato da un potere immaginifico così evocativo da sembrare impossibile da afferrare per il cinema.

Come ricreare sullo schermo quell'enorme ed eterogeneo mondo altro, noto come Terra di Mezzo? La verdeggiante Contea, la vecchia gloria decaduta di Gondor, i desolati e aridi territori di Mordor? L'impresa sembrava impossibile, destinata semmai ad un film d'animazione (come quello del 1978), ma mai all'ardua prova del live action. E invece no. Alla fine degli anni Novanta, mentre quel racconto magico era stato persino adottato come manifesto politico sia dalla destra che dalla sinistra, arriva un regista che sembra uscito da Casa Baggins.

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Peter Jackson sul set de Il signore degli anelli - La compagnia dell'anello nel 1999
Peter Jackson sul set de Il signore degli anelli - La compagnia dell'anello nel 1999

Curioso, goffo in apparenza, mosso da passione e a capo di una piccola compagnia di fidati compari (sua moglie Fran Walsh e l'amica letterata Philippa Boyens) Peter Jackson si avventura in un'impresa pari solo a quella di Frodo. Portare al cinema Il Signore degli Anelli vale quanto distruggere l'Unico Anello nel Monte Fato? Forse sì. Gesta simili per follia, grandezza, peso sulle sorti di quella terra di mezzo tra reale e immaginario che è il cinema. Perché a distanza di 15 anni dall'uscita italiana de Il signore degli anelli - La compagnia dell'anello, permane la sensazione di aver vissuto un momento irripetibile e decisivo, con la nostra meraviglia rapita e affascinata da mito, epica, fiaba e avventura. L'impatto di quel film nell'immaginario ha lasciato un solco indelebile nella vita di chi ci ha lavorato e di chi ne ha goduto in sala, creando un'eco persistente come il suono del corno suonato da Gimli durante la battaglia del Fosso di Helm. Allora, come vecchi amici ammaliati da vecchi ricordi, eccoci qui tra una boccata di erba pipa e un tocco di pan di via, a ripercorrere gli effetti di questa saga meravigliosa, un incantesimo collettivo impossibile da spezzare.

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1. Gli amabili resti di Peter Jackson

Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate: Peter Jackson festeggia Christopher Lee
Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate: Peter Jackson festeggia Christopher Lee

Prima di indossare l'Unico e giurare lunga fedeltà al mondo di Arda, il buon Peter Jackson era un regista difficile da imbrigliare in una definizione. Sfuggente ai generi, l'autore neozelandese aveva mostrato uno sguardo cinematografico non comune, sfrontato, scisso tra un gusto divertito per lo splatter (Fuori di testa) e una vocazione per storie più private, drammatiche, con derive visionarie (Creature del cielo). Dopo essersi inginocchiato dinanzi al prode Aragorn e aver salutato Frodo con le lacrime agli occhi ne Il signore degli anelli - Il ritorno del re, Jackson ha chiesto ad Andy Serkis di non perdere il vizio (della motion capture) e di guadagnare pelo con quel King Kong dal grande impatto spettacolare, ma che non tutti hanno amato davvero. Di quel film visivamente impeccabile nella ricostruzione urbana degli anni Trenta e nella rievocazione di una natura selvaggia rimane soprattutto l'estenuante sequenza di lotta tra Kong e i due T-Rex, mentre l'empatia con i personaggi non è stato privilegio di tutti. Quattro anni dopo, Amabili resti rappresenta un ritorno alle origini, come se il buon Peter si fosse messo in una posizione fetale per tornare intimo e rivolgersi ad una nicchia di pubblico. Così è stato, perché questo ennesimo adattamento non è stato tanto amato come il suo titolo lascia intendere.

Elijah Wood in una scena di Il signore degli anelli - Le due torri
Elijah Wood in una scena di Il signore degli anelli - Le due torri

E poi eccoci, di nuovo. Il viaggio davvero inaspettato, perché alla guida dell'agognato ritorno nella Terra di Mezzo c'era inizialmente Guillermo del Toro. Come Thorin fa con Erebor, Jackson sente il richiamo lontano di "casa sua" e non vi rinuncia; riapre le porte di Casa Baggins per scuotere Bilbo con una nuova avventura. La trilogia de Lo Hobbit non vuole né può avere lo stesso respiro epico della prima, così gioca con toni più spensierati e scene più grottesche. Chi scrive difende a spada tratta anche questo secondo atto che ci ha regalato lo hobbit migliore di sempre (Martin Freeman), due scene memorabili (gli indovinelli nell'oscurità con Gollum e il faccia a faccia con Smaug) e un grande personaggio tragico come Thorin, perfetta sintesi di Aragorn e Boromir. Però, va detto che non essere allergici al delirio digitale di molte scene, alla love story interrazziale tra Tauriel e Kili e a qualche lungaggine di troppo è davvero ardua impresa. Caro Peter, forse se avevate pensato a due film un motivo ci sarà pure. Noi ti aspettiamo ancora altrove, con nuove sfide anche lontano dall'occhio vigile di Sauron.

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2. Il cast: una saga per ghermirli?

Gli innamorati a Rivendell
Gli innamorati a Rivendell

Una delle scelte più acute e lungimiranti della trilogia cinematografica dell'Anello fu quella di affidarsi a grandi attori e a volti nuovi, freschi, senza ricorrere a nomi altisonanti, a star che facessero da traino (o persino da ombra) per la saga. Però, nonostante il grande senso di appartenenza che ha legato questo folto gruppo di interpreti durante i lunghi mesi passati in Nuova Zelanda, è anche vero che scrollarsi di dosso dei ruoli così iconici non è certo facile. Dopo la trilogia, Grampasso Viggo Mortensen ha dimostrato tutta la sua intelligenza e la sua sensibilità artistica spaziando dal cinema di genere a quello d'autore. Per cui crediamo che sia più Aragorn ad essere in credito con lui che il contrario.

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Se grandissimi attori come il compianto Christopher Lee, Ian McKellen e Cate Blanchett non hanno dovuto affatto faticare per svincolarsi dalla trilogia, Liv Tyler ha forse fallito il grande salto, gente come Sean Bean (lo spoiler umano: muore puntualmente) ha scovato tra le mura di Grande Inverno un nuovo, tragico personaggio per essere ricordato. È curioso notare che il gruppo degli hobbit è quello che più di tutti ha sofferto una ricollocazione nella percezione del pubblico. Di Sean Astin e Billy Boyd (autore della canzone The Last Goodbye che chiude Lo Hobbit: La Battaglia delle Cinque Armate ) si sono pressoché perse le tracce, mentre Dominic Monaghan deve ringraziare Charlie di Lost, e Elijah Wood non ha trovato nuova linfa né in ruoli da spalla, né in quelli di protagonista (ma vi consigliamo di riscoprirlo nella serie Dirk Gently's Holistic Detective Agency). Discorso a parte per Andy Serkis, ormai testimonial (e prezioso consulente) del motion capture (come in Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie) ma anche regista in erba che aspettiamo lontano dal suo "tesssoro".

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3. E nel fantasy incatenarli

William Moseley, Skandar Keynes, Ben Barnes, Anna Popplewell e Peter Dinklage in una scena del film Le cronache di Narnia: il Principe Caspian
William Moseley, Skandar Keynes, Ben Barnes, Anna Popplewell e Peter Dinklage in una scena del film Le cronache di Narnia: il Principe Caspian

Avete presente quella scena de Il signore degli anelli - Le due torri in cui gli Ent abbattono una diga per allagare gli oscuri anfratti di Isengard? Bene, Peter Jackson e soci sono riusciti in un'altra titanica impresa, a suo modo simile, ovvero quello di sdoganare finalmente un genere cinematograficamente assai timido come il fantasy. Certo, tra gli anni Ottanta e Novanta ci sono stati tanti esponenti del fantastico (Legend, Conan il barbaro, Labyrinth - Dove tutto è possibile, Dragonheart, Ladyhawke e tanti altri), ma si trattava di casi isolati, spesso non riusciti, o diventati cult col passare degli anni. Dopo La Compagnia dell'Anello, invece, niente è stato più lo stesso. Escludendo il fenomeno Harry Potter (contemporaneo e con un'accezione fantastica diversa), i tentativi di imitazione o di "messa in scia" del fenomeno jacksoniano sono stati tantissimi.

Chris Hemsworth protegge Kristen Stewart in una concitata scena de Biancaneve e il cacciatore
Chris Hemsworth protegge Kristen Stewart in una concitata scena de Biancaneve e il cacciatore

Dopo un inizio alquanto incoraggiante, la saga de Le Cronache di Narnia si è fermata, per ora, a tre film, La bussola d'oro ha fallito il suo intento, e il fantasy è stato capace di contagiare anche fiabe come Biancaneve e il cacciatore o incoraggiare produzioni di stampo videoludico come Warcraft - L'inizio. Oltre al proliferare di film di genere, a Il Signore degli Anelli dobbiamo anche la definitiva affermazione dell'ormai diffusa tecnica della motion capture. Dopo essere rimasti a bocca aperta davanti alle vibranti espressioni di Gollum, tanti registi si sono affidati a creature e personaggi digitali ma con solide basi umani. Gore Verbinski nella saga dei Pirati dei Caraibi, Robert Zemeckis con Polar Express e A Christmas Carol. E poi un "fan" su tutti. Un certo James Cameron che, dopo aver visto Le due Torri, affermò: "Va bene, adesso posso girare Avatar". Dai piccoli hobbit agli enormi Na'vi il passo è breve. Chi l'avrebbe mai detto.

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4. Nuova Zelanda, sempre di mezzo

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Ormai siamo abituati al loro dominio, quasi assuefatti dai supereroi, ma 15 anni fa fummo catapultati in un super luogo. Perché la Terra di Mezzo è un mondo altro dal potere ammaliante, una realtà affascinante che ha rapito i sogni e i desideri di molti. Bene, quel posto esiste davvero, ed è quasi davvero così. Perché il vecchio amore di Peter Jackson per il realismo, il suo radicato desiderio di un cinema "artigianale" hanno reso la Nuova Zelanda un set naturale perfetto per la sua messa in scena. Le vaste lande brulle e gli spazi sconfinati ancora dominati dalla natura, avvalorati dalle note evocative e poetiche di Howard Shore (provate a risentire Concerning Hobbits ad occhi chiusi, e diteci se non sentite odore di Contea) hanno per forza di cose avvicinato milioni di visitatori e curiosi alla scoperta della nazione immersa nell'Oceano Pacifico. Se quasi tutto il set della prima trilogia è stato rimosso, parte di quello de Lo Hobbit è stato conservato, lasciando intatta una porzione di Contea con locali e negozi a tema. L'indotto turistico è stato enorme (ce lo confermano tour, monete, francobolli, aerei ed aeroporti personalizzati), ma l'economia neozelandese ha gioito anche grazie alla manodopera coinvolta dallo stesso Jackson (orafi, armaioli, artigiani) e alla riscoperta di questa terra suggestiva da parte del cinema che è venuto dopo. Tante, infatti, sono state le produzioni che hanno investito nel Paese oceanico con riprese e post-produzionei (da L'ultimo samurai a District 9, per arrivare ai futuri capitoli di Avatar). Ma nessuno ha forgiato l'identità nazionale più del lungo cammino di Frodo, Sam e compagni.

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5. Fuggite, sciocchi

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L'immaginario collettivo è qualcosa di vasto e complesso, qualcosa che pullula di suoni, visioni, frasi, tormentoni, battute. In questo senso Il Signore degli Anelli ci ha marchiato a fuoco, ha impresso dentro i nostri occhi e sulle nostre lingue immagini e modi di dire incancellabili. Almeno che voi siate storici giocatori di Dungeons & Dragons, Magic o affezionati fan di tanti illustratori tolkieniani, è facile che i volti, le espressioni e i colori di Gandalf, Gimli e Legolas siano i primi a saltarvi in mente sentendo le parole "stregone", "nano" e "elfo"; un'associazione di pensiero immediata e inevitabile causata da un'iconografia ben precisa creata da Jackson (e adottata da un pubblico di massa) che ha curato ogni minimo dettaglio scenografico, dando un'identità e una forma propria ad ogni razza della Terra di Mezzo (gli elfi sono raffinati e longilinei, i nani tozzi e squadrati, gli Uomini di Gondor sono diversi da quelli di Rohan).

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E come dimenticare il dolce ed esaltante suono di alcune frasi della saga? I monologhi strazianti di Gollum e le sue filastrocche disperate, il suo ossessivo attaccamento al tessoro, i consigli amorevoli di Sam (C'è del buono in questo mondo, padron Frodo. È giusto combattere per questo), l'ultimo, straziante saluto di Boromir (Ti avrei seguito fratello mio... mio capitano... mio re). In molti hanno sognato previsioni del tempo fornite dall'acuto sguardo di Legolas (Sorge un sole rosso, stanotte è stato versato del sangue; C'è un'empia voce nell'aria), immaginato di andare "a caccia di orchi" con Aragorn e poi ripensarci perché "non è questo il giorno", preso appunti dalla fermezza ("Tu...non puoi...passare!") e dalla lungimiranza di Gandalf sulla morte ("Finita? No, il viaggio non finisce qui. La morte è soltanto un'altra via"). E a chi non ha mai visto Il Signore degli Anelli e non capirà nulla di tutto questo, non resta che elargire un ultimo, affettuoso consiglio: "Fuggite, sciocchi!".