Recensione Prey (2007)

Anziché accrescere il pathos, i tentativi dei protagonisti di sfuggire a morte certa innescano una vertigine di noia che distoglie il pubblico fiaccandolo al punto da suscitare ilarità all'ennesima forzatura della sceneggiatura.

Il ruggito della Savana

Tom e Amy Newman partono per il loro viaggio di nozze in Sud Africa, accompagnati dai due figli di lui. L'adolescente Jessica vive drammaticamente il nuovo legame del padre senza farne mistero. Durante una gita in fuoristrada, Amy e i ragazzi rimangono vittime di un incidente che li vedrà alla mercé di un branco di leoni. Soli, affamati e spaventati, i tre dovranno affrontare momenti drammatici nell'attesa della salvezza.

Ancora un'avventura Sudafricana per Darrell Roodt, che torna nella sua terra d'origine dopo i successi di Yesterday, nominato all'Oscar come miglior film straniero e all'Emmy nel 2006.
Questa volta, scrive e dirige un film del terrore che s'ispira alle paure ataviche dell'uomo: le belve feroci, assetate di sangue. Plot molto stringato per una partita giocata sul talento degli attori e le innate doti registiche di Roodt che ha l'arduo compito di gestire e mostrare ogni più recondita paura. Molte le occasioni per sfruttare il carattere claustrofobico della storia che, sebbene ambientata in piena savana, costringe i protagonisti fra le lamiere di una jeep assediata dalle belve. Occasioni perdute a quanto pare, in maniera sempre più grossolana fino a sfociare in un finale grottesco. Il ripetersi delle situazioni, la prevedibilità degli eventi disattendono le aspettative non oltre la prima mezz'ora. Anziché contribuire ad accrescere il pathos, i tentativi dei protagonisti di sfuggire a morte certa innescano una vertigine di noia che distoglie il pubblico fiaccandolo al punto da suscitare ilarità all'ennesima forzatura della sceneggiatura. Così il numero variabile di belve a seconda delle probabilità di farla franca dei protagonisti o l'entrata in scena di personaggi destinati alla rapida immolazione pur di allungare l'agonia del pubblico.

Roodt non risparmia nessun'ovvietà inserendo bracconieri indigeni pur di salvare matrigna e figlia, per poi farli morire sbranati dopo aver soddisfatto ogni richiesta di servilismo da parte delle belle sconosciute. Riflettendo poi che la pellicola è ambientata in Sud Africa, paese che sconta ancora duri anni d'Apartheid, due bianche isteriche nella savana hanno le stesse probabilità di salvarsi dai leoni che di superare incolumi l'incontro con degli africani. Inevitabile la ricerca di un motivo per la scelta di un soggetto tanto banale in alternativa a temi socio-politici di ben altra rilevanza. Bisogna quindi accontentarsi di fare il tifo per ricchi turisti americani che durante una scampagnata in piena savana si trovano in pericolo.
Un soggetto così insignificante, trattato in maniera ancor più ridicola scandito dall'isterismo dei personaggi e da goffi tentativi di salvataggio in un'estenuante corsa fuori e dentro la jeep.
A corollario di ciò, piccoli drammi familiari dal prevedibile lieto fine.

Non basta la professionalità di Peter Weller a risollevare le sorti di una pellicola in cui l'interpretazione dei felini spicca su tutte le altre.
È con troppa malinconia che la memoria corre a ben altre belve assetate di sangue, da Cujo a Lo squalo; in questo caso non si tratta della fantasia di Stephen King né della regia di Spielberg ma solo di un'idea che avrebbe fatto bene a rimanere tale.