Recensione King Kong (1933)

La rivisitazione del mito della bella e la bestia vive in King Kong tra momenti terrificanti, geniali intuizioni tecniche e un senso di magnificazione dell'avventura. Elementi questi che fanno del film un momento indimenticabile nella storia del cinema.

Il Re delle scimmie

Nell'avvicinarsi ad un "mostro" sacro come il capostipite di tutti i King Kong possibili ed immaginabili (uscito nel 1933 all'ombra della Grande Depressione), si deve inevitabilmente compiere un'opera di archeologia cinematografica. Troppo rudimentali appaiono agli occhi odierni i fantasmagorici (per l'epoca, s'intende) effetti speciali di Willis O'Brien. La storia del cinema è fatta però di momenti capitali che non è mai giusto considerare anacronistici se si ama veramente la settima arte.
L'illusionismo del cinema non è infatti solo quello derivante dall'attuale computer graphics del Kong di Peter Jackson, ma anche (e soprattutto) quello di un pupazzo di appena 50 cm d'altezza ricoperto di peli di coniglio che si muove con imponenza (la tecnica dello stop motion è qui portata alla perfezione) in una New York grande grande ma ricostruita semplicemente in miniatura o filmata e proiettata su grossi teloni ("trasparenti"). Ed è solo apprezzando l'immenso lavoro di O'Brien (da sicuro Premio Oscar se in quel periodo ci fosse stata l'apposita categoria dedicata agli effetti speciali) che si può intuire come l'appellativo di film giocattolo sarebbe da attribuire più alla pellicola di Jackson che a quella del duo Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack (due esperti documentaristi prestati al cinema) nonostante il notevole gap temporale (e tecnologico) tra le due opere.

L'idea di King Kong prende le mosse da un progetto di Edgar Wallace (morto prima del suo completamento) e, in particolar modo, dall'incontro della Cooper con Douglas Burden, un esploratore che nel 1926 portò nello zoo del Bronx il più grande rettile vivente (il dragone Komodo) catturato su un'isoletta dell'estremo oriente. La documentarista americana, udendo il racconto di Burden, rimase affascinata dalla possibilità di trarre un film con protagonista assoluto un essere primordiale che muore una volta portato a contatto con la civiltà moderna. Costato 650.000 dollari (con un incasso di ben 90.000 dollari nella prima settimana di proiezione, la cifra più alta per quei tempi), nel 1938 King Kong fu considerato il film più violento della storia. L'anacronismo dell'affermazione non deve però far dimenticare il carattere estremamente sperimentale della pellicola, e non solo in virtù degli effetti speciali. King Kong non è un film giocato solo sulla ricerca tecnica. L'inevitabile taglio documentaristico impresso al film dai due registi permette di sfruttare al meglio il carattere più profondo delle ambientazioni, prima esotiche e poi urbane, messe al servizio della crescente tensione provocata dalla strabordante presenza scenica della mitica creatura. E da ciò scaturisce l'utilizzo di opportuni primi piani di Kong intento a "degustare" manicaretti umani e l'atteggiamento quasi da anti-diva di una sensualissima Fay Wray (Jean Harlow rifiutò il ruolo di Ann Darrow) alla quale il copione assegna più urla che dialoghi.

King Kong è comunque anche un viaggio all'interno del cinema intellettualmente onesto delle origini: non a caso Carl Denham è disposto a mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi collaboratori pur di girare qualcosa d'irripetibile, e così l'attrice protagonista diventerà solo un'appetibile esca per far uscire la bestia allo scoperto. Perché nel frattempo Denham ha capito che il grosso bestione, trasformato per l'occasione in fenomeno da baraccone, potrebbe spalancare le porte del successo in quel di New York. Come dire: la mercificazione del cinema è iniziata, signori! Così tra momenti poetici (la tenerezza con cui Kong afferra e adagia la bionda attrice sull'Empire State Building), terrificanti baraonde e ingenuità di fondo (il tutto sottolineato dalla sontuosa partitura di Max Steiner), King Kong s'insinua di diritto tra gli episodi cruciali della cinematografia mondiale.

"Non sono stati gli aerei, ma la bella ad uccidere la bestia!", afferma Denham nella storica battuta conclusiva del film. Già. Non basta raggiungere le vette più alte della giungla o della città per difendere e custodire la vera bellezza. Quella stessa bellezza che può essere fatale più di qualsiasi mostro (e Kong lo capirà a sue spese): amaro apologo per una delle storie più incredibili che si siano mai rappresentate sul grande schermo. Il Re Kong è morto, viva (e vive ancora) il re Kong!