Recensione Station Agent (2003)

McCarthy, attore al suo esordio dietro la macchina da presa, realizza un film di disarmante semplicità nella sua forma ma di non indifferente complessità riguardo i contenuti che veicola.

Il potere della semplicità

Sono due le intelligenti e "scandalose" idee alla base di Station Agent: la prima è quella di regalare un ruolo da protagonista ad un uomo affetto da nanismo: un nano, per usare un termine oggi non politicamente corretto. La seconda è quella di essere un film dove - perlomeno in apparenza - non accade assolutamente nulla, dove la quotidianità, nei suoi elementi più essenziali e persino banali, è alla base dell'intero racconto e dove proprio grazie a questo il racconto si fa profondo e coinvolgente.

Il protagonista è Finn, un uomo appassionato di treni che lavora in un negozio di modellismo ferroviario con un vecchio amico che chiama "professore". Per carattere, ma anche per via del suo aspetto e delle sue settoriali passioni, Finn è riservato e silenzioso, amante della solitudine e della contemplazione. Quando il professore muore, Finn riceve in eredità una piccola stazione in disuso a Newfoundland, in una delle zone più rurali e deserte del New Jersey. Stabilitosi nella sua nuova dimora, Finn rinuncerà lentamente, dapprima con grande fatica, poi con sempre maggior piacere, al suo status di solo/solitario, confrontandosi con gli altri, attraverso l'amicizia con Olivia, un'artista quarantenne che soffre per la morte del figlio e la fine del suo matrimonio, e Joe, un venditore cubano di caffè e hot-dog, trentenne e chiacchierone.

Thomas McCarthy, attore al suo esordio dietro la macchina da presa, realizza un film di disarmante semplicità nella sua forma ma di non indifferente complessità riguardo i contenuti che veicola. Da un lato abbiamo la storia essenziale e commovente di un'amicizia, che con grande intelligenza non viene descritta attraverso momenti alti di drammaticità o condivisione, ma attraverso la semplice profondità insita nel condividere le piccole cose (un caffè, una passeggiata, aspettare il passaggio di un treno, farsi domande estemporanee e futile per chiudere subito il discorso) e nel condividere i momenti di silenzio, di calma, di riflessione che le inframmezzano. Da un altro punto di vista poi - intimamente connesso con il primo - il film racconta anche con grande delicatezza e con un'assenza pressoché totale di pietismo o paternalismo il tema della diversità e del rapporto del "diverso" con i normali, aiutato dall'ottima interpretazione di Peter Dinklage. L'attore, attraverso sguardi, gesti e poche parole è efficacissimo nel comunicare la dignità, la timidezza, il dolore, il risentimento e il coraggio del suo personaggio, ma soprattutto, unitamente ai pregi della regia e della sceneggiatura, è in grado far dimenticare al pubblico la sua "diversità", riducendola - come dovrebbe essere sempre e per tutti - ad una semplice differenza di carattere anatomico.
Sono molte ancora le parole che si potrebbero spendere a favore di The Station Agent, ma fedeli alla filosofia del film, fatta appunto di sospensioni, semplicità e silenzi, preferiamo chiudere qui i nostri appunti, invitando chi legge alla visione, alla riflessione, alla capacità di leggere tra le righe.