Recensione Viaggio segreto (2006)

Un film altamente sconsigliabile se non a spettatori estremamente raffinati e molto pazienti che vogliano provare a rintracciare qualche sprazzo di buon cinema in mezzo a un magma melenso e pretenzioso.

Il passato è un luogo dell'anima

Leo, psicanalista quarantenne, vive immerso nei ricordi degli altri; Ale, la sorella minore, modella e aspirante attrice, si rifugia nelle braccia del fratello e "sceglie" l'oblio. Vivono nello stesso palazzo, hanno ciascuno le chiavi dell'appartamento dell'altro, stretti in un rapporto morboso che li blocca in un'infanzia che sembra non finire mai. Harold, un affermato artista serbo che ha iniziato una relazione con Ale, entra nella vita dei due e, intuendo i fantasmi che vi aleggiano, comincia a interessarsi al passato di lei e decide di comprare per Ale la casa in cui hanno trascorsa l'infanzia, in Sicilia. La notizia della vendita fa sì che Leo si metta in viaggio verso la campagna siracusana, per impedire che Harold metta in atto il suo disegno, dalle conseguenze critiche e imprevedibili, e per ricostruire attraverso la memoria lo squarcio doloroso che ha segnato il suo destino.

Il film di Roberto Andò soffre principalmente del suo essere, come dire, pesantemente letterario. Ogni frase è declamata con enfasi, ogni dialogo accuratamente cesellato, ogni espressività relegata in rigidi binari da teatro drammatico borghese d'altri tempi. I personaggi si muovono in un mondo d'ombre, sussurrando frasi fatali ad ogni pie' sospinto e sfoggiando un pathos che non trova, cinematograficamente parlando, nessuna ragion d'essere. Il cerebralismo di Leo sembra riversarsi interamente sulla sceneggiatura che ripiega continuamente in allusioni, suggerimenti, simbolismi, tralasciando tragicamente di occuparsi della sua superficie. La ricostruzione del dramma di Ale diventa così pura teoria, il suo dolore emerge dalle inquadrature come potrebbe farlo dalle pagine descrittive di un caso clinico. La pur ottima Valeria Solarino non puo' far altro che appiattirsi in questa maschera vuota, abbandonandosi a sguardi languidi e movenze svenevoli che dovrebbero forse rispecchiarne il vuoto inferiore ma che sortiscono lo spiacevole effetto di respingere ben presto ogni partecipazione emotiva "semplice" da parte dello spettatore. Il suo personaggio salvato in extremis almeno dal silenzio (così come accade per almeno un paio di altri personaggi interessanti ma tremendamente sotto-sviluppati). Non è così per il povero Alessio Boni che si ritrova schiacciato in un verboso stereotipo di psichiatra declamante, inviluppato in un abborracciato meccanismo di detection che scricchiola fin dalle prime inquadrature (sarà voluta la scelta di svelare praticamente tutto anche nel trailer?), soffocato dal suo stesso insistito ansimare. Che dire poi di Emir Kusturica, estraneo catalizzatore privo storia, di passato e di spessore. Amante senza passione, amico senza compassione, non si capisce cosa ci stia a fare lì in mezzo, non è certo quella di Andò la geografia della memoria che permea il suo (di Kusturica) cinema. Un'icona? Forse. Sicuramente un pessimo attore.

Da dire che Andò non perde occasioni per mettere in mostra una certa maestria nella composizione delle inquadrature, nell'uso spigliato dei movimenti di macchina, nell'organizzazione dello spazio e del set in dimensioni diverse da quella frontale, qualità vistose quanto più notevoli in un uomo che nasce come uomo di teatro (pure al suo terzo lungometraggio, dopo Il manoscritto del principe e Sotto falso nome). In alcuni casi mostra anche una certa smania di sfoggiare, ingarbugliando con un montaggio troppo serrato e complicato, un materiale che già fatica a dipanarsi. Un film altamente sconsigliabile se non a spettatori estremamente raffinati e molto pazienti che vogliano provare a rintracciare qualche sprazzo di buon cinema in mezzo a un magma melenso e pretenzioso.