Il Pardo della pace: incontro con Amos Gitai

Il regista israeliano, che a Locarno ha ritirato il Pardo d'Onore, ha parlato del suo cinema e della questione palestinese: 'L'integrazione può e deve essere possibile, ma occorre favorire i rapporti umani personali. Io lavoro spesso con attori di fede islamica'.

Frédéric Maire appare particolarmente emozionato nell'introdurre il regista israeliano Amos Gitai, frequentatore abituale dei festival giunto quest'anno a Locarno per ritirare il Pardo d'Onore, un importante riconoscimento alla sua carriera cinematografica, e per presentare il suo ultimo lungometraggio di finzione, Plus tard tu comprendras. La precisazione è d'obbligo visto che Gitai è il primo a distinguere tra le sue due carriere parallele di cineasta e documentarista. "Il documentario ha più pudore", esordisce Gitai, "non ambisce a inventare niente. Non vi sono attori che recitano, ma solo uomini che interpretano se stessi. Il film, invece, non narra la realtà in modo oggettivo, ma la filtra attraverso lo sguardo del regista e degli sceneggiatori. Plus tard tu comprendras è un adattamento letterario, cosa che non faccio sovente. Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Jérôme Clément con cui ho parlato a lungo prima di decidere il taglio narrativo da dare al lavoro. Questo film, che narra del percorso compiuto da Victor per ricostruire la vita della madre, rappresenta per me una sfida notevole visto che ho scelto di fare un film sul non-detto. Il non-detto è qualcosa di astratto, qualcosa che materialmente non esiste, e paradossalmente, per rendere questo concetto astratto ho dovuto far ricorso alla voce, anzi alle mille voci non umane, alla tv, alla radio, alla voce degli oggetti, a tutto ciò che è in grado di comunicare. Fare un film sul non-detto è andare contro la natura comunicativa del cinema. E' il tentativo di fare un film non illustrativo. Posso spiegare in questa ottica anche la scelta di aprire Plus tard tu comprendras con un lungo e inusuale piano-sequenza. Faccio spesso uso di questa tecnica, ma mai in forma così esplicita come in questo caso in cui era necessaria all'economia della pellicola. In un mio film non si vedranno mai montaggi velocissimi che guidano l'occhio dello spettatore verso il contenuto, perchè il mio è un cinema di scoperta e conoscenza. Non voglio dire al pubblico cosa deve guardare o pensare, ma voglio lasciargli la libertà di ricostruire il senso della storia anche attraverso lo sguardo".

La presenza di un regista politico come Amos Gitai, politico sia in virtù delle storie narrate che delle esperienze personalmente vissute, non può prescindere da un commento sulla questione palestinese. "L'Europa ha dimenticato il destino degli Ebrei. Si disinteressa di ciò che accade in Medio Oriente. Peggio, la questione palestinese è diventato un conflitto esotico, qualcosa a cui guardare con distacco. La tragedia della guerra è destinata a continuare finché le cose non cambieranno. Il dovere del cineasta è quello di descrivere e interpretare le grandi questioni politiche del presente e del passato. Sono a favore di un cinema critico, ma non demagico. Per un regista che si accosta alla materia politica è necessario, anche se doloroso, partire dalla propria terra e dalla propria cultura per venire a patti con la propria storia personale. In quest'ottica capisco la ragione del perché molti dei miei film in Israele non sono stati accolti favorevolmente. Anche il paese più illuminato rifiuta di mettere il dito nella piaga, e rinnega chi prova a dire le cose come stanno. Il primo impulso è quello di chiudere gli occhi sugli eventi negativi, non parlarne mai. E invece sono necessari artisti che trattino argomenti forti con coraggio. Non necessariamente sono d'accordo con tutto ciò che diranno, ad esempio non condivido il punto di vista di Philip Roth che propone provocatoriamente di allontanare tutti i non ebrei da Israele per porre fine ai conflitti. La soluzione non è rimettere indietro le lancette dell'orologio, ma cercare un equilibrio futuro".

Se il futuro rappresenta la speranza di un miglioramente nella situazione politica internazionale, molti dei lavori di Amos Gitai dipingono un presente decisamente cupo, anche se il regista conferma laconicamente che si tratta solo di una rappresentazione realistica della situazione socio-politica. Il finale di Kadosh, ad esempio, vede i protagonisti passare attraverso l'inferno, ma alla fine solo una di loro prova a cercare il cambiamento. "Kadosh fa parte di una trilogia dedicata alle città di Haifa, la mia città natale, dove ho girato Devarim e Yom Yom, e Gerusalemme. Questa è una piccola città, simbolo universale in quanto culla di tre diverse religioni monoteistiche, e proprio per questo microcosmo condizionato completamente dalla religione. La comunità di Gerusalemme è profondamente divisa al suo interno, una società dinamica con molti problemi irrisolti. E siccome i tre culti monoteistici sono profondamente maschilisti, le vittime di questa situazione sono principalmente donne, come nel mio film, che rappresenta la realtà sociale del luogo". _ Nel parlare di fedi e culture contrapposte il pensiero va a Youssef Chahine, il maestro egiziano recentemente scomparso. "Chahine ha visto un mio film proiettato in Egitto e quando mi ha incontrato mi ha stretto la mano specificando che ero il primo israeliano a cui stringeva la mano. L'integrazione può e deve essere possibile, ma occorre favorire i rapporti umani personali. Gli esempi non mancano. Io lavoro spesso con troupe miste e con attori di fede islamica, e ho scoperto che i miei film sono disponibili in DVD anche in una città come Teheran. L'importante è andare avanti in questa direzione perchè i popoli sono composti di persone e le persone devono entrare in contatto per conoscersi e non temersi_".