Recensione Chocolate (2008)

Il film di Prachya Pinkaew si riallaccia al filone classico d'arti marziali, inaugurato da Bruce Lee, mettendo al centro della scena un'inedita figura femminile, cui presta il corpo la straordinaria Jeejia Yanin.

Il (neo)realismo del cinema d'azione

"Le mie fonti di ispirazione sono in primo luogo i grandi eroi del cinema d'azione, da Bruce Lee a Jackie Chan. Ciò che mi interessa è soprattutto il realismo dell'azione. A questo aggiungo l'ispirazione proveniente dalla vita quotidiana, da qualunque stimolo che mi possa suggerire il mondo circostante. Infine, cerco di combinare questi elementi nel giusto mix, dando sfogo alla mia immaginazione, e cercando di elaborare sempre qualcosa di innovativo".
Questo è quanto che ci confida nella conferenza stampa del Far East Film Festival 2009 Panna Rittikrai, coreografo d'arti marziali e responsabile assieme al regista Prachya Pinkaew della realizzazione di alcuni dei più stimolanti action degli ultimi anni, tra cui Ong Bak - Nato per combattere e The Protector - La dura legge del Muay Thai. E proprio questo è il miglior commento che si potrebbe scrivere per Chocolate, l'ennesima fatica della coppia di actioneer, questa volta orfani del portabandiera del cinema d'azione tailandese Tony Jaa.

La mancanza del giovane guerriero del Muay Thai tuttavia non si fa certo sentire, grazie alla presenza di una nuova star: Jeejia Yanin, 24 anni, un passato da ballerina classica e da campionessa di taekwondo. Il visino dai lineamenti gentili e aggraziati di Jeejia non inganni: la ragazza non avrà per forza di cose la potenza dell'eroe nazionale Tony, ma la sua grazia e la precisione nelle coreografie da combattimento non ha eguali. Jeejia, per la sua leggerezza e per l'abilità nei balzi e nelle capriole, ricorda un altro mito del cinema d'azione, Jackie Chan. Da lui deriva l'impostazione un po' da saltimbanco di alcuni momenti coreografici e la tendenza a interpretare i combattimenti come una vera e propria danza. Un collegamento lo si trova anche nei titoli di coda: alla fine di Chocolate, come in ogni film del buon Jackie, compaiono le sequenze che propongono agli spettatori gli errori sul set, con tanto di ferite e cadute ostentate in bella mostra, proprio a ribadire lo statuto ontologico di "realtà" delle scene d'azione. Il film di Prachya Pinkaew - dopo che a Hong Kong da decenni si è abbandonato il cinema di kung fu dall'impianto realistico in favore di wuxiapian artificiosi e stracolmi di computer grafica - si riallaccia proprio al filone "duro e puro" d'arti marziali, inaugurato negli anni Settanta da Bruce Lee.

Le citazioni più o meno dirette, del resto, in Chocolate si sprecano. L'eroina Jeejia esordisce in una sequenza ambientata nella fabbrica di ghiaccio, proprio come ai suoi tempi fece Bruce ne Il furore della Cina colpisce ancora (Jeejia non si risparmia neanche gli urletti che hanno reso celebre il campione di Hong Kong). Inoltre, tutta l'ultima parte del film sembra avere parecchi debiti nei confronti de L'ultimo combattimento di Chen, in particolare per quanto riguarda la celebre e interminabile sequenza ambientata nella pagoda. A parte le citazioni (quasi un vero e proprio omaggio rispettoso nei confronti di un intero genere), Prachya Pinkaew e Panna Rittikrai portano con questo film a completa maturazione una propria estetica personale del cinema di arti marziali, in cui - come dice anche Roger Garcia nel brillante saggio che introduce il focus che il Far East Film Festival quest'anno dedica all'emergente cinema d'azione tailandese - l'orizzontalità del kung fu si sostituisce a una messa in scena di impianto verticale che è tipica del combattimento Muay Thai. Basti pensare all'ultima sequenza del film, ambientata interamente nella facciata esterna di un palazzo, che si sviluppa con continui movimenti ascendenti e discendenti da un piano all'altro, quasi come si trattasse di un videogioco.

A parte la dimensione squisitamente estetica delle coreografie (che apprezzeranno soprattutto i fan di arti marziali) Chocolate convince anche per la capacità di elaborare una storia dalle tinte melodrammatiche incentrata su un'emblematica figura ai margini della società. Zen, ragazza autistica , è condannata sin da subito a un'esistenza di dropout, non solo per la sua disabilità, ma perché nata dalla relazione proibita tra uno yakuza giapponese e la donna di un boss tailandese. Zen, insomma, porta su di sé il marchio dell'esclusione e della marginalità, da cui però riuscirà a riscattarsi imponendosi nel mondo con le proprie sole forze. Chocolate non è altro che un vengeance movie atipico, virato al femminile e incentrato sui temi della riscoperta delle proprie origini, su cui il cinema d'azione tailandese degli ultimi anni sembra intenzionato a riflettere.