Recensione King Arthur (2004)

Il film di Bruckheimer si rifà in maniera men che marginale alle originali saghe arturiane, in una spericolata quanto inutile opera di ricostruzione storica, per portare sugli schermi una storia d'avventura modulata su un canovaccio poco più che ordinario.

Il mucchio selvaggio di Re Artù

Il film di Jerry Bruckheimer si rifà in maniera men che marginale alle originali saghe arturiane, da cui prende spunto, in una spericolata quanto inutile opera di ricostruzione storica, per portare sugli schermi una storia d'avventura modulata su un canovaccio poco più che ordinario (un gruppo di guerrieri più o meno rinnegati affronta un'ultima disperata impresa prima di riguadagnare la libertà; scopriranno che - mai come in questa ultima battaglia - quello per cui stanno lottando è ben lontano diverso anche dai valori imposti a cui avevano finito per aderire).

Via l'amor cortese, via la questione dell'onore, via tutte le implicazioni filosofico-alchemiche legate ai cicli del Graal e all'Excalibur. E via anche tutta la tradizione narrativa attorno ai cavalieri della tavola rotonda, che da Thomas Malory si snoda attraverso i secoli fino ai giorni nostri.
In un'operazione di cui si stenta ad afferrare il senso si svuota lucidamente, programmaticamente, una saga di tutti i suoi motivi e se ne mantiene null'altro che il "brand", cercando di riempire il vuoto che si è venuto a creare - vuoto che spiazzerebbe lo spettatore privato delle sue più elementari aspettative - con una supposta quanto velleitaria ricerca della veridicità storica.

Veniamo così a sapere che il vero re Artù sarebbe vissuto ben prima di quanto immaginiamo, attorno al 400 d.c., all'epoca del dissolvimento dei confini dell'impero, che sarebbe stato un romano al servizio dei romani, che il legame che lo univa ai suoi cavalieri fu di natura affatto diversa da quella tramandata dalla leggenda. Ginevra è una temibile virago, Tristano un assassino psicopatico, Merlino uno sciamano guerriero al comando di un popolo di bruti.

Veniamo a sapere insomma che la "verità" è meno affascinante della leggenda, ma non capiamo come e perché, da spettatori, dovremmo preferire la prima.

La sceneggiatura di David Franzoni (Il Gladiatore, Amistad) è totalmente inetta a restituire quel ponderoso lavoro di ricerca su cui (dando fede alle sue stesse parole) si basa, noiosa e a tratti incomprensibile nelle digressioni storiche, scolastica nel costruire un plot da film d'avventura che più classico non si puo', appena efficace nel tratteggiare i caratteri dei personaggi, ognuno con le sue caratteristiche ben distinte ma davvero troppo tagliate con l'accetta. Questa specie di mucchio selvaggio, dove ognuno ha le sue funzioni e le sue particolarità (uno che fa a pugni, l'altro nostalgico di casa, quello con due spade, quello col falcone) alla fine sembra un coacervo di disperati messi lì controvoglia, all'inseguimento di una dignità che non si capisce da dove potrebbe venire. E in questo il film riesce bene, nel restituire il senso di disorientamento di un gruppo di persone guidate quasi esclusivamente da istinti, senza ideali comuni da difendere, privi di una meta da raggiungere che non sia altro che un ferino e incosciente desiderio di libertà.

Inquietante il personaggio di Tristano, oscuro cavaliere solitario assetato di morte, l'unico di cui non ci vengano raccontate la storia e le motivazioni; affascinante la figura di Ginevra, forza selvaggia della foresta, abile guerriera capace a un certo punto di una convincente trasformazione al femminile.

Nulla da eccepire sulla regia di Antoine Fuqua, priva di sbavature, parca nei movimenti di macchina, onesta durante le tante scene di battaglia nel mettere in secondo piano rispetto a delle eleganti coreografie l'ipercinetismo tanto caro a Bruckheimer (anche qui, come in Black Hawk down e in La maledizione della prima luna, si fa uso di decine di punti di ripresa diversi per la stessa scena) e salvando il film dalla frenesia di un montaggio videoclipparo in cui gli stacchi si moltiplicano e le inquadrature ravvicinate lasciano troppo spazio all'immaginazione. Le folle di King Arthur si muovono in formazione, inquadrate in larghi totali, si fronteggiano in campo alternato scrutandosi, si sfidano a tiri di frecce dalle traiettorie chiare. Il tutto magistralmente fotografato da Slavomir Idziak (La doppia vita di Veronica, Film blu, Black Hawk down), che riesce a dare alle brughiere irlandesi una luce bellissima, sporca, lattiginosa e bagnata.

Clive Owen, nella parte di Re Artù, è il punto debole di un cast che si distingue per la totale assenza di star ma che, anche grazie a uno splendido lavoro dei costumisti, risulta alla fine più che soddisfacente.