Recensione La moglie di Frankenstein (1935)

Niente confetti per il matrimonio più raccapricciante della storia del cinema. Solo elettricità, pezzi sparsi di cadaveri e due scienziati pazzi in preda ad un immortale delirio di onnipotenza.

Il mostro cerca moglie

Il sequel (l'unico possibile nonostante la presenza abnorme di improbabili cloni) di uno dei classici horror di tutti i tempi, Frankenstein, risente palesemente dei reiterati rinvii che la programmazione della pellicola subì. Ma ne risente, sia chiaro, in termini positivi, perché il film di James Whale è un gustosissimo feuilleton gotico che mischia sapientemente le carte senza disdegnare il suo genere d'appartenenza.

Già nel corso del prologo, l'omaggio a Mary Shelley, (l'autrice della leggendaria novella) indica le coordinate in base alle quali il regista inglese si libererà dal peso dell'ingombrante prequel (innanzitutto per il gusto tutto teatrale di gestire il rapporto tra personaggi e ambiente). La moglie di Frankenstein è un seguito a tutti gli effetti (e tanti sono gli elementi di continuità tra i due film) ma con varianti rilevanti che modificano il tono complessivo della storia: non più un'atmosfera perennemente greve e funerea, ma anche tocchi lievi, ironici e poetici insieme, come nell'incontro tra il mostro e il cieco eremita (veramente emozionante nel suo tono messianico) o come nella magia fiabesca della scena delle bottiglie con gli uomini miniaturizzati. Il retaggio dell'espressionismo non poteva essere disatteso in un'opera del genere, e Whale ne fa un uso sapiente, soprattutto nelle prospettive sbilenche degli interni e nelle luci, che fendono i corpi dei protagonisti (e in particolar modo del mostro) con illuminazioni provenienti da più parti (giustamente qualche critico ha scomodato il nome di Rembrandt per trovare un termine valido di paragone). Ma l'ombra di Nosferatu si staglia anche sulla figura del dottor Pretorius (un alter ego del dottor Caligari), che ne imita palesemente le movenze (la camminata inflessibile con tanto di cassa sulla spalla) e il portamento ammaliatore. Il suo arrivo nella magione di Frankenstein, inoltre, è immortalata con un'inquadratura che William Friedkin copierà spudoratamente quando Padre Merrin compare sulla soglia di casa MacNeil ne L'esorcista.

La sposa, inoltre, immobilizzata su un tavolo da laboratorio attorniata dai soliti macchinari che sprizzano scintille (chiaro omaggio alla scena con l'automa in Metropolis) e interamente ricoperta di bende come una mummia (altro riferimento ad un film: La mummia con il mitico interprete del mostro Boris Karloff), è una protagonista fugace a cui toccano solo i pochi e decisivi minuti finali. In questo frangente, la moglie appare con le sue inimitabili saette bianche nei capelli (con una acconciatura "elettrica" che ricorda quella della regina egiziana Nefertiti), sfoggiando movimenti da cigno simili a quelli, certamente più disturbanti, del Norman Bates di Psycho. Il mostro è invece, come nel primo episodio, un emarginato, un violento per necessità. E' un reietto di cui la gente ha paura perché non ne capisce la profonda necessità di essere amato. E' un individuo capitato in un mondo non suo e che verrà respinto, in conclusione, anche dalla sposa, da un suo stesso simile. Il dramma individuale della creatura del dottor Frankenstein combacia qui con quello altrettanto personale di James Whale, omosessuale in un ambiente (quello hollywoodiano) che lo aveva praticamente emarginato. Pur avendone "sposato" il grande talento registico.