Recensione Non bussare alla mia porta (2005)

Per quanto il regista continui a negare il fatto che questo sia un tentativo di ricalcare l'esperienza di Paris, Texas, il pallore di questa (quasi) fotocopia ci ricorda impietoso l'incapacità del regista, negli ultimi anni, di realizzare un film degno del suo nome.

Il mondo dietro le porte chiuse

Era il 1984 quando Paris, Texas valse a Wim Wenders la Palma d'oro al festival di Cannes. Scritto da Sam Shepard, il più bel film dell'altalenante filmografia del regista tedesco raccontava, attraverso una regia ed una fotografia indimenticabili, il viaggio di un padre senza memoria, che dal deserto di un presente alienato, prende per mano il figlio, ritrovato dopo anni di silenzio, per ricondurlo tra le braccia di una madre lontana dallo sguardo triste. Una storia semplice ed imperfetta, ma vibrante di emozioni purissime, e soprattutto grande, grandissimo cinema, grazie all'estro di un regista che con la macchina da presa è da sempre in grado di far miracoli. Ventuno anni dopo Wenders e Shepard si ritrovano per riflettere ancora una volta sulle relazioni familiari in un mondo dominato dalla solitudine e dall'alienazione, ma stavolta non tutto funziona per il meglio e Non bussare alla mia porta, il secondo film della coppia che ha regalato alla storia del cinema uno dei suoi episodi più brillanti, risulta, a conti fatti, un'occasione sprecata.

"Non sono morto, non posso essere morto." E' quello che va ripetendosi Howard Spence, un attore dal viso carico di rughe, in fuga, in sella ad un cavallo, da un set nella valle del Moab dove sta girando un western di serie b dopo un passato di grandi successi che lo hanno reso ricco e famoso. Ora, però, che la sua stella si è offuscata e che i giorni si rincorrono tra i più classici dei vizi da celebrità maledetta in caduta libera, festini a base di sesso, droga ed alcool in primis, Howard si rende conto che nella sua esistenza non ha in realtà costruito nulla e che questo nulla sta divorando poco a poco i giorni, sempre più grigi, della sua vecchiaia. E' sua madre, dalla quale si rifugia dopo trent'anni di lontananza, a regalargli la speranza che forse la sua vita non è andata totalmente sprecata, quando gli confessa che, a qualche chilometro di distanza, c'è un figlio di cui l'uomo ignorava l'esistenza. Howard attraverserà il Nevada, a bordo di quella che era l'auto di suo padre, per raggiungere Butte, città fantasma dalle porte chiuse, quelle alle quali busserà per farsi riconoscere da un bambino diventato uomo senza il calore di un padre, ricevendo però come risposta esplosioni di rabbia montata dal rancore, e quelle dietro le quali si nasconderà per non incontrare una ragazza bionda, con in braccio un vaso pieno delle ceneri di sua madre appena morta, che chiede soltanto di essere ascoltata.

Un ennesimo road movie per Wim Wenders, regista che riconosce ai luoghi dove ambienta le sue vicende la stessa importanza dei personaggi, dei quali rappresentano naturali estensioni. Tre diverse location, in questo caso, danno conto di quel che accade al protagonista. Nella prima parte la valle rocciosa del Moab, paesaggio tipico di un cinema western che il sessantunenne regista tedesco intende dichiaratamente omaggiare, che rappresenta il vuoto all'interno della vita di Howard, dal quale l'uomo tenta di fuggire senza sapere però bene dove andare. Elko, nel Nevada, è la città di sua madre, dove sopravvive la tradizione dei cowboy, ma dove sorgono anche casino dalle mille luci e colori, un posto disorientante dalla doppia anima che ospita l'ultima notte brava di Howard, ma che è anche il luogo del risveglio, quello in cui gli viene rivelata la possibilità del riscatto, lanciandolo verso una resa dei conti obbligata. Ed infine Butte, nel Montana, strade larghe sempre deserte e alti palazzi di pietra, teatro del girotondo di un fantasma del passato che si aggira disarmato in un labirinto di porte chiuse.

Non bussare alla mia porta è una storia fondata tutta sui suoi personaggi, e che proprio in questi trova i limiti principali, riscontrabili nella caratterizzazione poco verosimile, nella piattezza dei dialoghi o più semplicemente nelle interpretazioni poco convincenti degli attori più giovani, mentre quelli con una maggiore esperienza sembrano calati bene nei propri ruoli, in particolare Eva Marie Saint, premio Oscar nel 1954 per Fronte del porto, qui incantevole madre del fuggiasco Howard, interpretato dallo stesso Sam Shepard, attore, sceneggiatore e regista, e autore, tra gli altri, di quella meraviglia cristallina che è Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni. E' tutto troppo superficiale ed artefatto, il racconto non si apre mai e l'emozione resta incastrata nelle relazioni che i personaggi non riescono ad intessere, perché non gli viene data loro la possibilità di farlo se non quando tutto è già finito e abbracci e mani aperte risultano colpi a salve di un sentimentalismo fuori tono.

Ipnotizzanti, come d'abitudine, sono i movimenti di macchina di Wenders, i campi lunghi e le panoramiche mozzafiato, così come la fotografia di Franz Lustig, che torna a lavorare con il regista un anno dopo il precedente La terra dell'abbondanza, film low-budget girato interamente in digitale, e che confeziona per lo spettatore una colorata delizia in cinemascope. La bellezza formale, però, non può fare da sola un ottimo film. Per quanto il buon tedesco continui a negare il fatto che questo sia un tentativo di ricalcare l'esperienza di Paris, Texas, temi, ambientazioni e suggestioni sbugiardano ogni presa di distanza, ed il pallore di questa (quasi) fotocopia ci ricorda impietoso l'incapacità del regista, negli ultimi anni, di realizzare un film degno del suo nome.
Provaci ancora Wim.