Recensione Un cane andaluso (1929)

Un chien andalou può esser visto più volte, ma non per questo necessariamente compreso. Il regista ci invita (o meglio, ci costringe) a porci in maniera diversa davanti al suo modo di fare cinema: ciò che l' occhio vede non sempre arriva alla mente, ma ciò che parte dall' inconscio sì, anche se per strade più tortuose.

Il manifesto del surrealismo 'andalou' di Buñuel

Dov' è il chien (cane) del titolo? All' interno dei quindici minuti di completa immersione surrealista garantiti dal film di Luis Buñuel (con sceneggiatura sua e di Salvador Dalí) non si trova neanche un cane, figuriamoci poi se andaluso. L'aggettivo, invece, è volto a ricordare (o ad accusare?) la medesima formazione artistica e culturale dei due collaboratori, che si sono conosciuti alla Residencia des Estudiantes.

Celebre è la sequenza, proprio in apertura, dell'occhio reciso; questa acquista maggior potere in quanto associata alla valida metafora di una sottile nuvola che, continuando sia ideologicamente che visivamente (con la stessa direzione di movimento) il gesto dell'uomo con il taglierino, passa davanti alla luna. L' occhio della povera vittima (una donna nell' universo diegetico della narrazione - sempre se così può essere definito ciò che viene messo in scena dal regista - ma un vitello nella realtà) non è il solo ad essere tagliato: con questo gesto estremo e rivoluzionario Buñuel in persona (sua è infatti la mano) apre gli occhi degli spettatori. I suoi film non possono essere visti usando i soliti standard e le usuali convenzioni: per capire le intenzioni del regista bisogna andare oltre ciò che l' occhio semplicemente vede, bisogna andare ad attribuire un significato secondo alle immagini dato dal senso profondo dell' inconscio e della psiche. Se si esamina attentamente il film, infatti, si scopre che è basato su una continua materializzazione di fantasmi, di paure, di flashback poco probabili ma dal significato certamente chiaro e importante per il suo autore che, fin dall'inizio, ha voluto evidenziare la sua concezione in quello che può essere definito il manifesto del cinema surrealista.

Finita questa sequenza di apertura, vediamo arrivare un uomo in bicicletta vestito da ragazza, con tanto di pizzi e merletti; una donna (la protagonista femminile) da dentro casa avverte il suo sopraggiungere, percepisce la sua presenza e si affaccia alla finestra. Il ragazzo cade sul colpo. Il guardare fuori dalla finestra rappresenta il guardarsi dentro, l' affacciarsi nel mondo dell' Io più profondo che è alla base delle nostre azioni, consce o inconsapevoli.
La donna scende per strada a raccogliere le sue cose, con particolare attenzione per una misteriosa scatola a righe. Disposti gli oggetti sul suo letto, la donna deve solo aspettare che la figura si materializzi. E infatti l'uomo appare, non sul letto ma in piedi alle sue spalle. Il personaggio maschile subisce una svolta radicale: da un suo essere frustrato (la mano piena di formiche è il simbolo di una soddisfazione sessuale solitaria) e apparentemente impotente, passa ad aggredire la donna in preda ad un forte desiderio erotico incontrollabile. Il cambiamento non è ingiustificato; anche se in apparenza lo sembra, non dobbiamo dimenticare che ci stiamo muovendo all'interno di un film surrealista dove l' evento scatenante è dato dalla morte di un suo alter ego per opposizione: una ragazza vestita da uomo - un essere androgino - viene investita mentre, con un bastone, muoveva una mano mozzata (emblema della castrazione ma anche della punizione per le pratiche erotiche poco lecite). L'uomo ha seguito la scena con incredibile partecipazione e godimento affacciato alla sua finestra: una parte di sé è stata uccisa, ma un'altra è rinata liberando i suoi impulsi sessuali più incontrollabili. Con inaudita forza e passione si scaglia verso la donna, ma non sembra che la voglia fare sua: è più uno stimolare, tramite il tatto, la sua immaginazione; accarezzandole i seni, la pensa prima nuda, poi, a causa della sua perversa fantasia erotica, il petto diventa un sedere. È in piena estasi, ma quando la donna lo rifiuta la rabbia lo porta a tirare con estrema fatica un pianoforte, due frati e una carogna d'asino; come ne L'Age d'or, l' ira del protagonista porta a gesti senza senso con oggetti che, però, un senso ce l' hanno: sono i pesanti bagagli di una rigida formazione spagnola e dell'anticleralismo dovuto al suo essersi formato, dagli 8 ai 15 anni, in un collegio gesuita.

L'uomo viene rifiutato e allontanato, chiuso dietro una porta dalla quale sbuca solo la mano; nello stesso momento viene a formarsi la figura sul letto, proprio la stessa piena di merletti caduta dalla bicicletta. Subentra un secondo uomo, una figura decisamente paterna e pienamente maschile, dall'identità ben definita, che sprona violentemente il ragazzo (il figlio?) a spogliarsi di quelle vesti vergognose. Un flashback ci mostra che 16 anni prima (il tempo è indicato dalle didascalie) il ragazzo era stato messo in punizione, spalle a muro; nel momento però, che prende in mano due libri, essi si trasformano in rivoltelle da usare contro il padre-padrone e suo rivale secondo un'interpretazione in chiave edipica. Anche la caduta è surreale: l'uomo cade nel verso opposto, per lo più in un giardino e toccando la schiena di una donna.

Nel momento in cui l'aggressore perde la bocca, la donna non ha più paura e può andare incontro a quello che sembra essere a tutti gli effetti il suo ragazzo facendosi beffe dell'amante. Il finale lascia spazio alle singole interpretazioni: i due, dopo aver ritrovato la scatola distrutta e gli oggetti che la figura paterna aveva lanciato fuori dalla finestra, si allontano abbracciati. Ma non si ha un happy ending: il film si chiude sui mezzi busti dei due che, in primavera, spuntano fuori dalla terra.