Recensione L'ultimo re di Scozia (2006)

MacDonald è certamente abile nel lavorare sulla tensione, ma si dimostra molto meno capace nel rendere tutte le sfaccettature dei suoi personaggi.

Il male d'Africa

L'ultimo re di Scozia, o l'ennesimo film di un regista bianco che parla di neri (in questo caso degli africani), portando all'attenzione del mondo problemi ed orrori spesso poco conosciuti, che ci ricordano una volta di più quanto gli esseri umani sappiano essere mostri disumani e di come troppo spesso si affidi così tanto potere nelle mani di un'unica persona da essere poi travolti dalla follia di chi, in nome di ideali e intenzioni quantunque positive, si serve di ogni mezzo, anche di quelli meno leciti, per raggiungere i propri obiettivi. Un'operazione che, anche quando realizzata con la massima sincerità e sensibilità possibili, soffre sempre di un punto di vista esterno che non riesce a penetrare nella profondità di culture altre e a fornire un'adeguata resa di eventi così lontani. Ma Kevin MacDonald, eccellente documentarista, qui al suo primo film drammatico, parla di qualcosa che buona parte del globo ha conosciuto, la dittatura, e che perciò è un po' più semplice da comprendere e da condannare.

Tratto dall'omonimo romanzo di Giles Foden (inglese di Warkwickshire, la stessa città che ha dato i natali a William Shakespeare), L'ultimo re di Scozia racconta il periodo di dittatura di Idi Amin nell'Uganda degli anni '70, un personaggio ambiguo che, come tutti i tiranni, ha costruito la propria fortuna sulle sue doti di ottimo oratore e comunicatore, dotato com'era di quel fascino inquietante che riesce sempre a far breccia soprattutto nella gente più ignorante, che ha bisogno di essere guidata ed esaltata da sogni di grandezza per andare avanti. Mosso da intenzioni più o meno buone (l'indipendenza del suo popolo, la cacciata delle sanguisughe asiatiche, il sogno di un'economia florida), Amin finirà con l'eliminare fisicamente tutti quelli che si metteranno sulla sua strada, compresi naturalmente migliaia di innocenti (che la didascalia conclusiva fa ammontare a 300.000). Il punto di vista è quello del giovane medico scozzese Nicholas Garrigan (personaggio immaginario) che Amin prende sotto la sua ala protettiva, anche per quella provenienza scozzese che il tiranno tanto ama e che gli ispira da sempre sogni di gloria, facendolo diventare il suo braccio destro, e trascinandolo in un delirante progetto di grandezza e distruzione.

MacDonald è certamente abile nel lavorare sulla tensione, modulando la sua regia su ritmi epilettici, con una camera che non sta mai ferma e frequenti zoomate veloci, ma si dimostra molto meno capace nel rendere tutte le sfaccettature dei suoi personaggi. Poco o nulla viene detto del passato dei due protagonisti, di come sono diventati le persone che sono, mettendo semplicemente in risalto i lati estremi delle rispettive personalità: il carisma e la brutalità di uno, l'altruismo e l'egoismo dell'altro. Così come vengono spesso solo accennate le conseguenze della ferocia del dittatore, a meno che non si tocchi direttamente il bianco dottore e le persone a lui più vicine: le scene più cruente, infatti, sono quelle che vedono coinvolti una delle mogli di Amin, che Garrigan non ha esitato a ingravidare, ignorando il pericolo al quale la stava così esponendo, e lo stesso dottore, appeso al soffitto con dei ganci conficcati nella pelle del torace dopo aver scoperto il suo tradimento. Il resto sono esecuzioni gelide, fuori campo, lontane dal cuore.

Buone le interpretazioni dei due protagonisti. James McAvoy, al suo primo ruolo da protagonista, riesce a reggere dignitosamente le due ore di presenza praticamente fissa sullo schermo, ma la sua somiglianza con il nostro Silvio Muccino è così impressionante che in certe sequenze si fa davvero fatica ad ignorarla e ce lo rende un po' più antipatico di quanto il suo personaggio non voglia effettivamente apparire. Molto meglio Forest Whitaker, un grande attore che riesce a dare al suo Amin molto più di quanto la scadente sceneggiatura non sia in grado di dire, infilando un sorriso o uno sguardo gelido che raccontano molto del terribile despota, uomo burbero ed infantile. Certo non è facile restare impassibili di fronte a tanta crudeltà, sebbene spesso solo sottintesa, alle efferatezze di uno psicopatico assetato di potere che teme il confronto con le voci contrarie e preferisce zittirle distruggendole, ma dove sono le sofferenze quotidiane di questo popolo? Quali sono i problemi che mettono in ginocchio gli africani, oltre la follia di un dittatore che riesce a penetrare facilmente nelle loro debolezze? In fondo l'Africa dev'essere qualcosa in più dei soliti bambini che corrono sorridenti mentre salutano o dei lamenti disperati di fronte a tragedie esagerate. E c'è sempre da stare attenti quando ai dittatori si concede anche solo un briciolo di umanità, come quella lacrima regalata al viso di Amin dopo la brutale punizione inflitta al suo dottore.