Recensione La febbre (2004)

Emozioni e risate, comicità naturale che si confonde con la poesia, sono gli elementi vincenti di una sceneggiatura che tratta problemi importanti senza però renderli indigesti.

Il gusto della vita

Affidare l'apertura di un film ad una canzone splendida come Solo per te dei Negramaro è un impegno importante, perché esige uno sviluppo che mantenga la stessa forza del tono sognante e delicato di un pezzo voce, pianoforte e tromba che come una ninna nanna accompagna le immagini iniziali della notte cremonese illuminata dai lampioni, ammaliando lo spettatore prima di introdurlo in un'atmosfera incantata che accarezza il sorriso sereno sui volti dei corpi che ballano al ralenti in un locale dalle luci soffuse, il Mazdepaz, il simbolo di un sogno vagheggiato, abbandonato e poi dissotterrato da qualcun altro, secondo altri obiettivi.

Una nuova storia di sogni sgualciti, strappati dalle anomalie di una società che logora l'individuo e si fa beffa dei suoi desideri. Il coraggio di restare in piedi sta nel calpestare i cocci dei sogni infranti e guardare a testa alta di nuovo lontano, sta nel trovare o inventarsi nuovi stimoli che conducano a nuovi sogni, nei quali essere padroni di sé stessi e vogliosi di rendersi felici, al di là dei limiti che le istituzioni marce pongono. In una società in cui il lavoro debilita l'uomo, creando automi insoddisfatti che subiscono e mummificano le proprie ambizioni, Mario, il protagonista de La febbre, interpretato da un eccezionale Fabio Volo, non è che l'ennesima vittima degli scherzi spietati che il nostro paese riserva ai suoi figli. Immobilizzato tra il desiderio di un locale che non potrà mai essere aperto perché privo dell'autorizzazione e l'alienazione del posto fisso in Comune, dove subisce mobbing da parte di un superiore invidioso, Mario si trova a fare i conti con le aspettative di chi gli sta intorno, che hanno creato un'immagine di lui nella quale non si riconosce e che non sa come distruggere.

A tirarlo fuori da questa situazione stagnante è d'improvviso l'amore, che si apre in una parentesi, al centro esatto del film, e non può che spazzare via tutto il resto, i dispiaceri e ciò che fino a quel momento si accettava per inerzia, ma la felicità personale deve sempre fare i conti con l'invidia degli altri o con la rabbia di chi ti credeva suo, perché tua madre, perché tuo amico, perché abitare uno spazio risicato nei pensieri di chi è felice è ben altra cosa rispetto al vuoto rassicurante della vita normale. L'amore di Mario per Linda (Valeria Solarino) è un prendere coscienza di sé e ritrovarsi nel piacere di andare insieme in motorino nei campi della pianura cremonese, appendere le risate al vento e scavarsi un grembo tra i fili d'erba dove accarezzarsi spiati dalle lucciole, l'amore si spiega nella scoperta l'uno dell'altra, nel mettere insieme esperienze e provarne piacere. Amore consumato in una settimana, prima di un arrivederci obbligato, perché tutti prima o poi se ne vanno e Mario si ritroverà drammaticamente solo, sotto una pioggia battente, in una notte che metterà a dura prova la sua resistenza psichica. Sarà un altro incontro, consumato stavolta in un inserto onirico, a dare la spallata decisiva alla sua abulia, facendogli così ritrovare l'entusiasmo per la vita e per le sue idee.

Tre anni dopo Casomai, Alessandro D'Alatri torna alla regia scegliendo ancora una volta come protagonista Fabio Volo. Se nel suo precedente film, il regista romano indagava il rapporto di una giovane coppia, dall'innamoramento al matrimonio, passando attraverso le inevitabili incomprensioni e il tradimento, fino alla separazione, qui ad essere esplorata è l'esistenza invisibile di un uomo comune che alla vita mediocre della burocrazia e al rampantismo volgare preferisce una realizzazione più intima, votandosi ad un futuro di semplicità, di amore per le piccole cose. D'Alatri, regista tra gli altri del bellissimo e sottovalutato Senza pelle, dissemina nel suo nuovo lavoro una serie incalcolabile di spunti interessanti, che vengono sviluppati con più o meno attenzione, ma che non sovraccaricano mai la narrazione.
Con La febbre, il regista cinquantenne raggiunge un equilibrio perfetto tra forma e sostanza, anche se in più di un'occasione si lascia andare a superflue infiorettature, cedendo al fascino incontrollabile degli effetti speciali che nulla aggiungono all'economia della storia, ma che contribuiscono a rendere il film più moderno e di maggiore appeal.

Emozioni e risate, comicità naturale che si confonde con la poesia, sono gli elementi vincenti di una sceneggiatura che tratta problemi importanti senza però renderli indigesti, affidandosi all'eclettismo di un Fabio Volo in stato di grazia, dotato di una capacità espressiva da far invidia a qualsiasi dei giovani attori italiani più quotati del momento. E, come spesso accade, la sua superba interpretazione si traduce soprattutto nell'eloquenza degli sguardi che esprimono ora stupore, ora tenerezza, ora disperazione, con un'efficacia degna di un attore navigato. Accanto a lui un corposo numero di personaggi minori, ma fondamentali, interpretati da attori in molti casi alla prima esperienza cinematografica, come Massimo Baggiani (il capo Cerqueti) e Vittorio Franceschi (il collega Faoni), due attori non più giovani al loro meritato esordio al cinema. E poi ancora da segnalare le prove di Valeria Solarino, Thomas Trabacchi (l'amico Bicio, uno dei personaggi più belli del film), Arnoldo Foà (il Presidente della Repubblica), Gisella Burinato (la madre di Mario) e Cochi Ponzoni (il padre di Mario)

Tra i numerosi camei del film, anche quello di Giuliano Sangiorgi, leader dei Negramaro, che con la sua band impreziosisce il film di ben otto canzoni, tutte tratte dal loro album fresco di stampa, Mentre tutto scorre, e che sottolineano con grazia tutti gli snodi narrativi del film. La colonna sonora si compone inoltre di pezzi di Mascagni e Verdi interpretati dal coro del Ponchielli, del repertorio popolare bandistico della tradizione italiana eseguito dalla Banda Jonica capitanata da Roy Paci, e della musica elettronica di Simone Fabbroni. Tutto in questo film è italiano perché La febbre è una dichiarazione d'amore per l'Italia, un amore espresso attraverso la figura paterna del Presidente della Repubblica che si ferma al bancone dei sogni di Mario per bere una buona birra italiana, attraverso il ricordo dei poeti che si trasformano in dolci baci, attraverso la bellezza di una città di provincia come Cremona, la banda che si fa strada tra la sua nebbia e il coro che anima la sua Cattedrale. Ma è una dichiarazione questa senza violini, colorata di sana rabbia, perché il nostro paese si risvegli dal torpore e torni a splendere con la dignità che gli è propria.