Recensione La vita segreta delle parole (2005)

La regista catalana Isabel Coixet, a seguito dell'ultimo "La mia vita senza me", firma un altro film dalle tinte profondamente tragiche, un film incentrato sul suono della verità e dunque sul silenzio, quel silenzio fatto di costrizione, di vergogna, di dolore.

Il fremito lancinante del silenzio

La vita è fatta di silenzi e parole - questo il primissimo insegnamento dettato da un'agrodolce vocina fuoricampo nel corso delle sequenze iniziali de La vita segreta delle parole.
La regista catalana Isabel Coixet, a seguito dell'ultimo La mia vita senza me, firma un altro film dalle tinte profondamente tragiche, un film incentrato sul suono della verità e dunque sul silenzio, quel silenzio fatto di costrizione, di vergogna, di dolore. Perché le parole a volte non bastano a dire un segreto di cui non ci si riesce a liberare, a volte è meglio lasciar parlare il proprio corpo, i suoi segni, le sue cicatrici indelebili.

Parole sottovoce intercalate da mutismi ben più eloquenti si rivelano, quindi, i veri protagonisti della pellicola, presentata nella categoria Orizzonti al Festival di Venezia, che tratta di una storia che commuove, coinvolge e convince fino in fondo, tanto da strappare parecchi minuti di applausi già alla fine della prima proiezione.

Hanna è una ragazza sorda, che vive i suoi giorni in una solitaria routine sospesa sull'orlo del maniacale, fra quintali di saponette alla mandorla e cibo in scatola della mensa lavorativa. Efficienza e seria professionalità sembrano essere i connotati salienti di questa biondina dal volto perennemente triste, a cui un giorno viene addirittura ordinato di andare in ferie, per almeno un mese; proprio a lei, che non ha mai fatto neanche un giorno d'assenza. In effetti non si tratterà di una vera e propria vacanza, tutt'altro: Hanna trova un nuovo lavoro, che la tiene per settimane in una piattaforma petrolifera sperduta nell'oceano ad accudire e curare Joseph, un uomo rimasto gravemente ustionato a causa di un'esplosione. Fra i due si instaura giorno per giorno un legame sempre più profondo, speciale, insolito a cominciare dal fatto che lei non può sentire, tuttavia ascolta attraverso un apparecchio acustico (che spenge ad arte quando decide di estraniarsi da tutto ciò che la circonda). D'altro canto, lui non può vedere, eppure tenta di farlo in ogni modo possibile, servendosi di sensi ed immaginazione. Sembra quasi che la regista voglia indirizzare lo spettatore a cercare nei due handicap, in quel binomio di dolore e malattia a cui fa da sfondo una macabra solitudine, l'unica via di salvezza per due anime apparentemente perse: è soltanto dall'affrontare le proprie paure, angosce, sofferenze più profonde che si riesce a risalire alla superficie di se stessi. E a partire da quel preciso istante, seppur con molta fatica, si può ricominciare a vivere.

Tim Robbins si distingue per la sua interpretazione toccante quanto professionalmente degna di nota: dopo La guerra dei mondi, ritroviamo finalmente l'attore di Mystic River alle prese con un ruolo altrettanto tragico quanto delicato, che sa trasmettere emozioni e sentimenti con una sola espressione facciale, così come riesce a strappare risate amare con battute che testimoniano ancora una volta l'efficacia di una sceneggiatura mai logorante né noiosa, firmata dalla regista stessa che dimostra grande maestria nel riesumare la tragedia dei Balcani per poi rielaborarla artisticamente senza mai scadere nella facile morale del compianto.
Di grande originalità anche l'interpretazione intrisa di mistero di Sarah Polley, ammirata già nel L'alba dei morti viventi"o nel più recente Non bussare alla mia porta e di Javier Camara, reduce da La Mala Education, che qui interpreta il cuoco di bordo, simpatico quanto bizzarro, che cucina ogni giorno al ritmo di musiche provenienti da quei paesi di cui prepara i piatti tipici.

Il resto del cast, in cui spicca Julie Christie nei panni della custode della vergogna dei sopravvissuti, contribuisce a portare sul grande schermo le molteplici tematiche affrontate, a volte solo con accenni simbolici, in questa pellicola prodotta da Almodòvar in persona: malattia, guerra, violenza, speranza, ideali (insuperabili le pillole di saggia ecologia da parte dell'oceanografo conta-onde) testimonianza, colpa, amore (ed omosessualità), nostalgia, rimorso, paura, angoscia, memoria... tutti in fondo riassumibili nell'eterna lotta fra passato e presente, in cui il passato è un'ombra scomoda che ritorna costantemente ad infestare un presente che pare impossibile fin quando tutto il proprio doloroso segreto non viene finalmente condiviso. Perché a volte la sofferenza sembra vivere di vita propria: è questa, la vita segreta delle parole.