Recensione Mystic River (2003)

La quotidianità è la sovrana assoluta del film, la vera trovata geniale del regista, quella che riesce magistralmente ad innalzare la pellicola sul palmo della credibilità.

Il fiume della morte misteriosa

Tutto ha inizio da un'innocente partita a hockey in un quartiere malfamato di Boston. Lì tre ragazzini Jimmy Markum, Dave Boyle e Sean Devine, si sfidano allegri e sorridenti, pronti a correre qua e là in cerca della vittoria. Nessuno di loro avrebbe mai potuto neanche lontanamente immaginare come quella lastra di asfalto fresco su cui avevano inciso i loro nomi, convinti di consacrare un legame indissolubile, si sarebbe presto trasformata nella lapide funeraria della loro amicizia.
Ed è la sinistra ombra di un'automobile scura a dimostrarlo, sfrecciando via con uno di loro a distanza di qualche minuto dalla fatidica "iscrizione".

La delicatissima tematica della pedofilia schizza subito dentro alla pellicola, macchiandola, tingendola di marcio. Un marcio che però non si trascina dietro il fetido odore del retorico, bensì l'inconfondibile fragranza del vero, del concreto, del reale. Perché tutto, in Mystic River, è presentato così com'è, senza ornamenti, senza trucchi, senza inutili facciate, tanto da porsi talora fra cronaca avvincente e documentario interessante. La quotidianità è la sovrana assoluta del film, la vera
trovata geniale del regista (un Clint Eastwood mai così grandioso!), quella che riesce magistralmente ad innalzare la pellicola sul palmo della credibilità.
Una violenza su minore, e, venticinque anni dopo, l'omicidio di un'adolescente. L'intricata matassa si dipana fra indagini e sospetti, in un crescendo di suspence che illude lo spettatore fino alla fine, come un prestigiatore che solo all'ultimo sfila il coniglio dal cilindro. A poco a poco, la pellicola sortisce il suo effetto più desiderabile, ammaliandoti, catturandoti, tenendoti sospeso su un filo che ha tutta l'aria di essere giallo, pur illuminato qua e là dalle luci blu della polizia. E invece devi guardare sotto, sotto alla sfumatura di verde che si crea nell'istante in cui i due colori s'incontrano, sotto quel filo su cui il regista vorrebbe condurti: ecco, ti ritrovi in mezzo ad una, anzi a tre storie qualunque. Tre storie che raccontano tutte la deprimente realtà di un fallimento esistenziale (verissima una delle battute finali: "è come se quel maledetto giorno fossimo saliti tutti e tre su quell'auto"): i tre protagonisti, ovvero quei tre bambini che per una serie di circostanze si perdono di vista per poi rincontrarsi dopo venticinque anni, formano un'incisiva triade di antieroi per eccellenza. Jimmy (Sean Penn), un boss vedovo e con trascorsi in carcere, a cui ammazzano la figlia più cara. Sean (Kevin Bacon), un poliziotto che da mesi si accontenta di silenziosi sospiri telefonici, abbandonato da una moglie che gli nasconde persino il nome della figlia. E fin qui potrebbe addirittura sembrare banale: solito giochetto della caccia al topo, del ladro e del poliziotto che, toh, sono persino amici. Ma è proprio nella descrizione del terzo personaggio che i cappelli si tolgono dinanzi a cotanto interprete e regia: Dave (Tim Robbins), il ragazzino costretto a salire in quella maledetta macchina scura che sfreccia via nell'ombra del delitto; è lui a pagare sulla propria pelle le conseguenze di quel male, di quella lacerante ferita che, per quanto con il costante aiuto della moglie Celeste tenti faticosamente di disinfettare, continua per tutta la vita a tormentarlo, fino alla fine. Una vittima, dite? Macché, a parte l'assassinata non c'è posto per l'innocenza in questo film: ognuno è presentato come ipotetico carnefice, colto in tutta la sua più colpevole umanità. Violenza, gangsterismo, propositi diabolici e processi senz'appello: queste le leggi che regolano Mystic River.

Un film che vede l'esibizione di un cast d'eccezione (di cui ben cinque membri sono stati candidati agli Oscar in passato): brillano particolarmente il maestoso Penn, bel tenebroso dai mille tatuaggi, e Robbins, il bambino cresciuto male (che ricorda vagamente il Mr. Cellophane di Chicago). Entrambi regalano al pubblico una toccante prova recitativa, che parte dalle più piccole smorfie del volto, dallo scatto dello sguardo, dalla cadenza del passo, fino ad arrivare alla scena madre della "confessione e processo". Accanto a loro, altre figure non meno affascinanti: c'è Kevin Bacon, tutto chiuso nella sua rigida uniforme blu, accompagnato da un Laurence Fishburne (alias Morpheus in Matrix e, meno recentemente, giovane G.I. in Apocalypse Now) più agguerrito che mai; ci sono altresì attori più giovani ma ugualmente pregevoli, come Tom Guiry (Brendan Harris, il ragazzo a cui uccidono il primo amore), Emmy Rossum (Katie Markum, l'uccisa) e Spencer Treat Clark (Ray Harris, il fratello muto). Spicca, infine, l'antagonistica coppia femminile Marcia Gay Harden - Laura Linney: due cugine, due mogli, due donne. La prima veste i panni dell'insicura e debole Celeste Boyle, compagna di Dave di cui non riesce a comprendere l'inestimabile dolore, che cerca rifugio nel cognato Jimmy. Moglie di quest'ultimo, ecco la quarta perla del film, dopo Eastwood, Penn e Robbins: sotto il nome di Annabeth Markum, la sensuale quanto camaleontica Linney riesce a trasformarsi da madre devota che si commuove durante la Prima Comunione della figlia, a tigre spregiudicata, pronta a graffiare per difendere il marito e per giustificarlo, sempre e comunque. Alla fine del film è chiaro, lampante: è lei la vera boss, colei che tiene in mano le redini del gioco.
Last but not least, un grande applauso anche a tutto lo staff tecnico, tra cui lo scenografo Henry Bumstead (vincitore di due premi Oscar): le immagini di Celeste in macchina sotto la pioggia, degli occhi di Dave che brillano nel buio della stanza del figlio, del processo sulle sponde del fiume che purifica le colpe umane, cancellandole nei suoi abissi, sono di un'efficacia artistica indescrivibile.