Il fenomeno della 'Ringumania'

Con l'uscita nelle sale giapponesi di "Ringu" di Hideo Nakata l'horror orientale si rinnovava profondamente: un nuovo movimento stava nascendo nella terra del Sol Levante, un movimento che sarebbe andato a influenzare le industrie dell'orrore di oriente e occidente.

Nel panorama dell'horror cinematografico "a cavallo" dei due secoli, se c'è stato un film che ha influenzato e ridefinito coordinate e immaginario del genere, portando alla luce un movimento che (nel bene e nel male) ha già segnato a fondo la storia della paura cinematografica, questo è stato senz'altro Ringu (1998) di Hideo Nakata. Film elegante e inquietante, straordinario successo in Giappone, originante due sequel, un prequel e due remake, il film di Nakata è stato la "spia" di un movimento che stava crescendo e sviluppandosi nella terra del Sol Levante, un movimento che avrebbe imposto all'attenzione del pubblico internazionale un gruppo di registi pronti a rinnovare l'immaginario dell'horror nipponico. La "new wave" horror giapponese era ormai nata, ed era così pronta a varcare i confini del Giappone per influenzare le cinematografie dell'intera Asia, giungendo anche al pubblico occidentale e solleticando il fiuto produttivo dei magnati di Hollywood, pronti ad approfittare della ventata di aria nuova per riproporre, con propri registi, tecnici e attori, le idee provenienti dall'oriente con un'ondata di remake che nella storia del cinema ha pochi precedenti.

In effetti, il grande pubblico occidentale ha iniziato a "scoprire" l'horror orientale (o almeno una parte di esso) proprio dopo il successo di The Ring, diretto nel 2002 da Gore Verbinski: il passaparola tra gli appassionati ha funzionato, e il bacino di utenza di un genere che, in occidente, era fino allora considerato quasi d'essai, si è allargato enormemente. Molte pellicole appartenenti a questo filone hanno trovato una qualche forma di distribuzione nei paesi occidentali, film come The Eye, Phone, Two Sisters e The Call - Non rispondere: film tra loro molto diversi, appartenenti a cinematografie diverse che si sono influenzate a vicenda, portati nei nostri paesi senza una logica precisa, ma che hanno contribuito senz'altro a far nascere una curiosità, tra il pubblico occidentale, per un modello di paura cinematografica che ha caratteristiche proprie, ben specifiche pur nella varietà degli approcci e delle peculiarità dei registi che lo propongono.

Così l'inquietudine sottile e crescente, l'atmosfera onirica, il senso di solitudine, abbandono e ineluttabilità che permeano il film di Nakata, saranno riproposti dallo stesso regista, trovando una sistemazione teorica ancora più precisa, nello splendido Dark Water (2002), film che rappresenta forse il punto artisticamente più alto di tutto il filone di cui fa parte: tutte le caratteristiche principali della new wave nipponica sono lì, dall'importanza degli spazi (qui un enorme palazzo fatiscente) all'uso essenziale e funzionale del sonoro per creare paura, dalla solitudine e dalla ricerca incessante di contatto umano dei protagonisti alla disperazione dell'entità spettrale, altrettanto sola, altrettanto disperata, altrettanto vittima di un contesto sociale che sembra favorire e moltiplicare l'alienazione. Tutti questi elementi, si diceva, trovano nel film di Nakata la sistemazione teorica più precisa e compiuta, concorrendo a creare quello che è un vero e proprio melodramma horror. Elementi che ritroviamo, estremizzati e legati a una generale visione pessimistica dei processi sociali e del rigido ordine che regola ogni aspetto della società nipponica contemporanea, nei film di un altro nome fondamentale del cinema giapponese (non solo horror) di questi anni, ovvero Kiyoshi Kurosawa. Il suo Kairo (2001), che parte da uno spunto molto simile a quello di Ringu (un contagio diffuso da un misterioso sito internet, che porta un'invasione di fantasmi sul Giappone), approfondisce alcune delle tematiche già trattate da Nakata, riflette sulla tecnologia e sull'alienazione da essa generata, mette in scena un male indistinto, dall'aspetto poco minaccioso ma inarrestabile e ineluttabile, che scaturisce da dentro le strutture sociali e pervade, indifferente e devastante, ogni aspetto delle nostre vite. Un male che viene trasmesso come un virus, a cui i protagonisti non riescono ad opporsi e che fa combaciare due delle più grandi paure dell'essere umano, ovvero quella della solitudine e quella della morte. Temi che Kurosawa aveva già affrontato, seppur in una struttura più propriamente "di genere", nel film televisivo Seance (2000), in cui era già iniziata la sua personale opera di "revisione critica" del filone post-Ringu.
Al cinema di Kurosawa, ma anche ai film di Nakata, si rifà abbastanza esplicitamente un altro regista nipponico, quel Takashi Shimizu che con il suo Ju-On: Rancore (2003) ha dato un'altra, decisiva spinta alla conoscenza e all'interesse per il genere da parte del pubblico occidentale. Ispirato a un suo precedente film per la TV, e a sua volta fonte di ispirazione per il remake occidentale prodotto da Sam Raimi e diretto dallo stesso regista, Ju-On riprende molti dei temi cari a Kurosawa (qui produttore esecutivo), tra i quali il contagio, la natura pervasiva dell'orrore, la sua ineluttabilità e sostanziale inopponibilità, puntando però su un approccio più "grafico", che sceglie di mostrare laddove Nakata e Kurosawa si limitavano a suggerire. Forte di una regia sicura, che gestisce al meglio gli innumerevoli spaventi proposti dallo script, e di una struttura "a incastro" ben congegnata, il film ottiene un grande successo dentro e fuori dal Giappone, generando un nuovo sequel (dopo quello già girato per la versione televisiva), e il già citato remake occidentale.

Ma la "Ringumania", come si è detto, non è rimasta certo confinata all'interno del panorama cinematografico del Sol Levante, andando anzi ad influenzare gran parte delle cinematografie asiatiche di genere contemporanee: Hong Kong e la Corea, industria consolidata (anche se in crisi) la prima e in rapida ascesa la seconda, non sono rimaste a guardare, e intuendo le potenzialità commerciali del filone hanno dato ad esso il loro sostanzioso contributo, riuscendo tuttavia a proporre ibridi e contaminazioni interessanti, non limitati alla mera derivazione. Parlando del cinema della ex-colonia britannica, sono da citare The Eye, diretto dai talentuosi fratelli Danny Pang e Oxide Pang, e Inner Senses di Lau Chi Leung, entrambi del 2002, nei quali ritroviamo molti dei temi portanti dell'horror nipponico, ivi compreso il carattere fortemente "umano" e nel contempo "sradicato" dell'entità spaventosa, insieme a suggestioni chiaramente prese a prestito dalle recenti ghost story occidentali quali Il sesto senso e The Others; più indefinibili e ibridi si rivelano invece i film di un regista come Cheang Soi (Horror Hotline... Big Head Monster - 2001 -, New Blood - 2002), che alla struttura di partenza mutuata dalla new wave giapponese aggiunge suggestioni di matrice lynchiana e una personale visione dell'orrore, onirica e labirintica, sempre in bilico sul confine realtà-sogno, per film non sempre equilibratissimi ma comunque di grande suggestione visiva. Una molteplicità di influenze e di riferimenti che caratterizza anche l'interessante Night Corridor di Julian Lee (2003), in cui il tema della violenza sepolta nel passato e dei traumi familiari rimossi si mescola a quello dell'omosessualità, motivo già affrontato dal regista nel precedente The Accident (1999); mentre più "classico", ma toccante e splendidamente diretto, si rivela Going Home di Peter Chan (2002), frammento dell'horror a episodi Three poi riproposto in una versione estesa per il pubblico hongkonghese, in cui la fotografia di Christopher Doyle accompagna un melodramma sovrannaturale in cui si ritrovano diversi echi del Dark Water di Nakata, senza tuttavia nulla sottrarre al grande coinvolgimento e alla carica emotiva trasmessi dal film.

Il cinema coreano, che negli ultimi anni ha conosciuto un vorticoso sviluppo produttivo, non è stato certo da meno nel filone horror, sviluppando, in direzioni spesso inedite e originali, suggestioni sicuramente legate al contemporaneo successo delle ghost-story giapponesi: la serie di Whispering Corridors è indicativa di questo fenomeno, con una menzione particolare per il secondo, splendido episodio, quel Memento Mori (1999), diretto da Kim Tae-Yong e Min Kyu-Dong che si muove perennemente in bilico tra enigmatica storia di fantasmi e struggente storia d'amore studentesca, con un equilibrio non sempre perfetto ma spesso capace di momenti di onirica, toccante liricità. Una vitalità confermata da titoli come Two Sisters (2003) di Kim Ji Woon (già autore di Memories, altro segmento del già citato Three), affascinante trattazione sui rapporti familiari mascherata da horror, con una struttura enigmatica che ricorda a tratti il David Lynch di Mulholland Drive, l'altrettanto enigmatico e problematico The uninvited (2003) di Lee Su-yeon, l'interessante e intricato Into the mirror (2003) di Kim Seong-ho, che gioca sapientemente con uno dei topoi classici dell'horror come lo specchio maledetto; ed è un peccato che, di tutta questa interessante cinematografia, gli unici film che abbiamo potuto vedere nelle nostre sale siano stati il già citato Two sisters e il mediocre Phone (2002) di Ahn Byeong-ki, film troppo derivativo e caratterizzato da una regia priva di mordente.

E per chiudere il cerchio (per ora) su questa panoramica riguardante quello che è ormai uno dei più "frequentati" filoni dell'horror moderno, è opportuno tornare nel paese da cui tutto ha avuto inizio, il Giappone, per parlare di un film diretto da quello che è probabilmente il più prolifico regista nipponico contemporaneo, ovvero Takashi Miike: il suo The Call - Non rispondere nasce dalla precisa richiesta dei produttori di mettere la parola "fine" alla serie di cloni/copie/rielaborazioni del film di Nakata, con la scommessa di puntare su un regista estremamente eclettico e "istintivo" come Miike. Il quale, da par suo, ha risposto con un film che rispetta in toto i canoni del genere, aggiungendovi tuttavia una componente grottesca e destrutturante che lo fa risaltare nel panorama a cui appartiene: una componente che da sempre caratterizza il cinema di Miike, sempre abituato a manipolare la materia filmica che tratta rendendola qualcosa di diverso, interessante e nel contempo visivamente esplosivo.