Recensione Metropolis (1927)

La smisurata eloquenza di Fritz Lang e le idee di Thea von Harbou consentono a Metropolis di raggiungere l'apice assoluto nell'arte (non solo cinematografica) d'inizio Novecento.

Il dramma del futuro

Metropolis è il film che attualizza il futuro rendendolo ancora più avveniristico. Senza l'immortale capolavoro di Fritz Lang pellicole come Guerre stellari, Blade runner, Matrix e via dicendo semplicemente non sarebbero esistite. Strutturato in tre parti, Metropolis è difatti una prova di gigantismo visivo senza pari che vive di un sincretismo debordante. Occultismo, scienza, religione, architettura, arte, filosofia, economia e politica costituiscono l'ossatura inscindibile del film che, nonostante lo scoperto approccio interdisciplinare, riesce a garantire un'intrinseca ed irripetibile unitarietà narrativa.

Anche i protagonisti del film si adeguano al magma ribollente proposto da Lang, senza invischiarsi in ruoli da comprimari. In Metropolis tutto è necessario all'immenso dispiegamento di mezzi, nulla è relegato in secondo piano. Il tessuto urbano della città di Metropolis è quanto di più smisurato si possa immaginare, convogliando l'occhio su subitanei allargamenti di campo e su continue verticalizzazioni dello spazio scenico che si materializzano in immensi grattacieli (ispirati a Lang dallo skyline di New York) e nell'essenzialità di un underground spoglio e oppressivo in cui è relegata un'umanità resa schiava dalle macchine e dalla tecnologia (reietti che, come nel successivo M, Il mostro di Dusseldorf, troveranno comunque la forza per un riscatto innanzitutto morale). La scenografia recita un ruolo fondamentale nella costruzione langhiana, grazie all'apporto di un esperto architetto come Edgar G. Ulmer, a cui è lecito attribuire una larga parte dell'importanza della pellicola (l'espressionismo, il Bauhaus, il futurismo, il neoclassicismo dello stadio, lo stile Art Dèco dell'appartamento di Freder e il rinascimento richiamato nella simil armatura cavalleresca dell'Essere-Macchina).

Ma è il binomio Fritz Lang/Thea von Harbou (non proprio idilliaco) a contribuire all'esito epocale di Metropolis, risultato del genio dell'uno e dell'altra. Questa produttiva relazione "binaria" sembra radicalizzarsi anche nel film, con una serie di rapporti a due (tra Maria e il suo alter ego Maschinenmensch, tra Rotwang e Joh, nonché quello tra il capitale e il proletariato) che in Freder, come un novello messia o un Parsifal retro-futurista, troveranno la loro risoluzione definitiva. Non senza che l'opera mistificatoria e diabolica orchestrata dall'Essere-Macchina (il doppio "assoluto" di Freder) abbia prima magnificato lo scontro-compenetrazione tra organico ed inorganico (quasi un'incarnazione ante litteram della costante ricerca di David Cronenberg), tra lubrica perversione (il ballo sfrenato ed incantatorio) e cinico calcolo.

Così Fritz Lang dirige con spropositato dispiego di mezzi una sinfonia fatta di caos e di ordine, di scene di massa (lontane anni luce da quelle "rivoluzionarie" di Sergej M. Ejzenštejn), di estenuati e quasi marionettistici interventi dei singoli protagonisti (come soggiogati dalla magniloquenza della costruzione complessiva) e di continui salti nel tempo e nello spazio che collocano Metropolis tra gli eventi che da soli valgono a fissare il significato storico-culturale di un intero secolo.