Il Divo, o la vita spettacolare di Andreotti secondo Paolo Sorrentino

Dopo gli applausi e i premi di Cannes, il film che ha stizzito Giulio Andreotti arriva anche nelle sale italiane.

Forte di un'accoglienza trionfale ricevuta al recente Festival del cinema di Cannes, dove ha conquistato il prestigioso Premio Speciale della Giuria e il Prix Vulcain, premio per i valori tecnici assegnato a Luca Bigazzi e ad Angelo Raguseo per il miglior rapporto immagini/suono in un film, Paolo Sorrentino si presenta alla stampa romana per raccontare Il Divo, vita spettacolare di Giulio Andreotti, l'uomo politico che da 40 anni in Italia rappresenta il potere.
Prodotto dalla Indigo Film, Il Divo è un racconto ironico, visivamente potente ed estremamente equilibrato che ritrae un uomo immobile, manovratore invisibile che vuole essere ricordato come "uomo di grande cultura, piuttosto che come grande statista", come affermato nel film dallo stesso Andreotti, impersonato da un incredibile Toni Servillo, capace di calarsi in un simile ruolo senza cedere alla tentazione di farne una macchietta da Bagaglino, ma sottolineando con strabiliante abilità interpretativa pregi e difetti del senatore, dalle geniali battute sempre pronte alla freddezza di fronte a ogni aspetto della vita, da quella pubblica a quella privata. Accanto a Servillo, un cast di grandi attori, tra i quali Carlo Buccirosso, Piera Degli Esposti, Aldo Ralli e Anna Bonaiuto, nel ruolo di Livia Andreotti, chiesta in moglie dal senatore durante una visita al Cimitero del Verano.

Dopo il successo di Gomorra, si spera che un altro film italiano possa sbancare il botteghino, facendo segnare ottimi risultati in termini di incasso che tornino a dare ossigeno al nostro cinema che dalla kermesse francese è tornato come magicamente risorto. Perciò, Il Divo uscirà domani, mercoledì 28 maggio, in 340 copie, distribuito dalla Lucky Red, pronto a infiammare nuovamente il dibattito pubblico su un personaggio chiacchieratissimo della storia d'Italia degli ultimi 40 anni, diviso tra le luci dei riflettori della vita mondana che tanto ama e le ombre che avvolgono la sua figura, tra le continue emicranie senza rimedio a quel tarlo in testa che lo tormenta, quello che gli sussurra senza sosta nel cervello che avrebbe potuto fare di più per salvare Aldo Moro. A chi gli chiede se Andreotti lo ha chiamato nelle ultime 48 ore, dopo la vittoria del premio a Cannes, il regista risponde candidamente "no_, anche perché non ha il mio numero_".
Paolo Sorrentino si augura che il film non accenda polemiche di carattere politico, ma non si sottrae a fornire la sua interpretazione dell'enigma Andreotti, perché, dichiara il regista, "può sembrare strano mettere in gioco cose cruciali per il paese e poi non prendere posizione". Sorrentino tiene a dire la propria anche sulle recenti affermazioni del cantante Pino Daniele che, presentando il suo ultimo disco, ha affermato che i film italiani in concorso a Cannes lo preoccupavano perché contribuiscono soltanto a pregiudicare l'immagine di Napoli e del Sud nel mondo. A Il Divo sarà dedicata la puntata di Annozero in onda venerdì 30 maggio, che tante polemiche sta suscitando per la decisione della Rai di spostarla dalla sua abituale collocazione del giovedì, decisione penalizzante e "assurda" secondo il conduttore Michele Santoro, vista la programmazione contestuale su RaiUno della partita della nazionale di calcio, Italia-Belgio, che sottrarrebbe una buona fetta di pubblico a una trasmissione dedicata finalmente al cinema italiano.

Paolo Sorrentino, dopo la presentazione a Cannes, da domani Il Divo verrà finalmente visto dal pubblico italiano. Crede che il suo film sia destinato ad accendere dibattiti e polemiche su Andreotti e su ciò che ruota intorno alla sua figura, Mafia in primis?

Paolo Sorrentino: Dato che il film non è nato per una mera provocazione scandalistica, mi auguro che non ci siano polemiche, ma non sono così ingenuo da credere che ciò non avverrà. Il mio film tenta di mettere in evidenza i guai del teatrino della politica e spero quindi che Il Divo non ne accenda di nuovi. Volevo far vedere come la politica ha un'autoreferenzialità esasperata che è una cosa molto grave perché è tutto tempo tolto da ciò a cui è deputata. Io tra cinema e politica scelgo il cinema e preferirei quindi che le polemiche si accendessero sul film, ma purtroppo ne ho già dovute affrontare da più parti. Si è insinuata una mia presa di posizione, in una maniera o nell'altra, relativa agli eventi: c'è chi dice che il film è troppo morbido, chi dice che è troppo duro. Io credo semplicemente che il film sia verosimile.

Nel film c'è questa presa di posizione?

Nella sostanza il film si mette a traino del personaggio che è deliberatamente ambiguo. Andreotti usava questa ambiguità come strategia utile per il mantenimento del successo, perciò veniva da sé che il film dovesse andargli dietro. L'unica eccezione a questa impostazione è la scena del monologo che recita Servillo a un certo punto del film e che rappresenta ciò che penso io su verità e menzogna. Mi sembrava giusto fermarmi a proporre una mia interpretazione, perché mi sembrava strano mettere in gioco cose cruciali per il paese e poi non prendere posizione. In quella scena surreale Servillo diventa un urlatore che tenta di spiegare il mio punto di vista su fatti che ho studiato per un anno e che sono confluiti poi nel film.

L'impressione è che il suo sia un film rivolto in primo luogo ai giovani che di questi eventi non hanno memoria. E' d'accordo?

Ho fatto il film proprio con questa speranza, che lo andassero a vedere i giovani, perché quelli di una certa età conoscono molto bene come sono andate le cose. Per loro, il film si limita a rispolverare l'attenzione verso cose che si sono dimenticate. L'impronta stilistica che ho dato al film è in direzione dei giovani: ho tentato di spettacolarizzare quello che non può essere spettacolarizzato, perché per esempio la Democrazia Cristiana è qualcosa di assolutamente anti-spettacolare. I film biografici in Italia si devono misurare con una produzione televisiva che non mi appartiene né dal punto di vista della narrazione agiografica né da quello dello stile e della forma. Quelli sono film su personaggi celebri che assecondano tali figure, qualcosa che al cinema non ci si può permettere.

Come ha lavorato all'estetica del suo film?

Il film ha due registri diversi, ma che si sposano perché a un certo punto la storia cambia. All'inizio c'è l'iconografia del potere come qualcosa a sé stante, irraggiungibile. La funzione estetica in quella fase trova quindi numerosi appigli. L'ultimo governo Andreotti si caratterizza per l'immobilismo e Andreotti è ricordato come un politico senza progetti di grande respiro e questo va di pari passo col suo modo di comportarsi che è immobile. Nella prima parte vi è quindi la messa in scena dell'immobilità del potere. Poi qualcosa cambia, Andreotti è costretto a sporcarsi le mani, confrontarsi con la realtà delle cose, quando viene tirato in ballo in questioni legate all'omicidio di Aldo Moro o alla Mafia. Anche il film a questo punto entra nella realtà e si asciuga della parte estetica.

Come ha pensato invece al personaggio Andreotti in fase di scrittura?

Quando ho cominciato a pensare di scrivere il film volevo evitare di rappresentare Andreotti come Nosferatu perché era una relazione troppo prevedibile. Poi in realtà, quando sono andato a incontrare Andreotti, tutte le persane erano chiuse e ho cominciato a pensare che forse davvero il senatore cammina sempre in penombra. Se c'è stat un virare verso una sorta di personaggio "horror" è perché in qualche maniera questo è riscontrabile. E poi c'erano fatti che mi hanno aiutato a creare il mio Andreotti sullo schermo. Per esempio, appena ho letto che Andreotti ha fatto l'agopuntura per combattere i mal di testa, mi è balenata subito in testa quest'immagine del suo volto pieno di aghi e volevo aprire il film in questo modo.

Perché ha voluto inserire nel film la scena del bacio tra Andreotti e il boss mafioso Totò Riina che sappiamo essere avvenuta solo dalle rivelazioni di un pentito?

Quella scena è la ragione principale per cui ho fatto il film, senza di essa il mio lavoro si svuota di significato. E' vero, è una scena che passa attraverso le parole di un pentito, ma mi colpì molto quando uscì fuori questo fatto, perché era qualcosa di clamoroso che i simboli del potere e del contropotere si baciassero. Non mettere un'immagine del genere mi sembrava ipocrita.

A Cannes il riferimento che tornava più spesso quando si parlava de Il Divo era quello al cinema di Elio Petri. Si riconosce in questa dimensione metafisica del potere come mostrata dal regista romano?

Mi piace molto il cinema di gente come Petri e Rosi, che coniugano una ricerca formale con argomenti prioritari rispetto ad altri e in questo senso sono per me dei modelli, ma evito di guardarli troppo perché il rischio è l'imitazione. Gli argomenti che affrontavano loro oggi vanno affrontati in maniera diversa. A me interessa coniugare temi forti, reali, con una ricerca spettacolare, perché non amo il cinema che confina con il documentario.

Continuerà a fare film su personaggi reali dopo Il Divo?

Tutti e quattro i film che ho fatto sono fin troppo reali. Si gioca su vari registri, come il grottesco, ma tutti i personaggi sono rappresentativi della nostra società in maniera quasi banale: il calciatore, il cantante di musica leggera, il politico.

Qual è stato il lavoro sulla colonna sonora?

Sin dall'inizio, l'idea era quella di usare la musica rock e la prima stesura del montaggio prevedeva molta più musica rock nel film. Poi ci sembrava un'esibizione da deejay e quindi abbiamo ridotto la sua presenza e trovato nella musica classica un buon contrappunto. La musica è un elemento che lavora contro questo personaggio così ben inquadrato, che ha relazioni così specifiche.

Come mai ha scelto come titolo Il Divo?

E' un soprannome che se non sbaglio diede ad Andreotti il giornalista Mino Pecorelli e che trovo perfetto perché ha in sé un duplice significato: si riferisce alla verve mondana di Andreotti, ma anche a una diretta emanazione divina da parte di Andreotti. Per me, infatti, Andreotti è un uomo equipaggiato come Dio: un essere molto fermo, ma dalla cui immobilità si dipanano ordini e si determinano tante situazioni.

A Cannes è stato premiato un cinema italiano il cui filo conduttore è uno scenario del nostro paese piuttosto degradante. Cosa pensa al riguardo?

Ho sentito dichiarazioni pesanti da parte di gente che evidentemente non sa cos'è il buon cinema, come Pino Daniele e Afef. Vorrei far capire a queste persone che non esiste buon cinema che non tratti in maniera critica la società. Il cinema non dev'essere un depliant turistico, ma deve ragionare in maniera critica su qualcosa altrimenti non esiste. Forse l'unica eccezione a questo discorso è il cinema di Frank Capra, ma per un buon lavoro dev'essere sempre fonte di spunti critici e di riflessione. Critiche come quelle di Pino Daniele sono paradossali, visto che il più grande successo della sua carriera è stato Napul'è, un brano con un testo che non è certo tenero nei confronti della città e di un'immagine che ora si affanna a proteggere.

Col suo film è stato capace di far perdere le staffe ad Andreotti che dopo averlo visto l'ha definito "una mascalzonata".

Non era mia intenzione pungolare o far arrabbiare Andreotti. Sono contento però che ci sia stata una reazione, perché è già una cosa nuova, confortante, perché vuol dire che il cinema, tra i vari mezzi di comunicazione, è quello che riesce a lavorare sulle emozioni invece che sulle informazioni. Ci sono stati negli anni numerosi libri, giornali e servizi televisivi che avrebbero potuto far stizzire il senatore, ma se ciò è successo solo con Il Divo vuol dire che il regno delle emozioni alberga ancora nel cinema.